Da “Il libro dell’Inquietudine” [114]
Ci sono momenti in cui tutto ci stanca, perfino ciò che potrebbe riposarci; quello che ci stanca perché ci stanca; quello che potrebbe riposarci perché l’idea di ottenerlo ci stanca. Esistono certe prostrazioni dell’animo al di sotto di qualsiasi angoscia e di qualsiasi dolore; ed essi sono ignoti solo a coloro che evitano le angosce e gli umani dolori e vengono a patti con se stessi per sfuggire al proprio tedio. Non stupisce che, riuscendo a costruirsi una corazza contro il mondo, ad un certo punto della loro consapevolezza di se stessi a costoro pesi l’intera mole della corazza, e la vita diventi per loro un’angoscia alla rovescia, un dolore perduto.
Mi trovo in un momento così, e scrivo queste righe come colui che pretende almeno di rendersi conto di vivere. Fino a un momento fa, ho lavorato tutto il giorno in un modo sonnolento redigendo la mia contabilità attraverso procedimenti di sogno, scrivendo sulle righe del mio torpore. Per tutta la giornata ho sentito la vita pesarmi sugli occhi e sulle tempie: sonnolenza sulle palpebre, pesantezza sulle tempie, sullo stomaco la consapevolezza di tutto questo, nausea e sconforto.
Vivere mi sembra un errore metafisico, una negligenza dell'inazione. Non bado neppure al giorno per cercarvi qualche cosa che mi possa distrarre da me stesso e perché io, descrivendolo qui con la scrittura, possa chiudere con parole il calice vuoto del mio non-volermi. Non bado neppure al giorno, e ignoro, con le spalle curve, se è sole o mancanza di sole ciò che c’è nella strada soggettivamente triste, nella strada deserta dove sta passando il rumore della gente. Ignoro tutto e il cuore mi fa male. Ho smesso di lavorare e non voglio muovermi da qui. Sto guardando la carta assorbente di un bianco sporco fissata agli angoli che si spande sulla grande età della scrivania inclinata. Fisso attentamente gli scarabocchi di assorbimento e distrazione che vi sono impressi. Ripetute volte la mia firma alla rovescia e all’incontrario. Qualche numero qua e là, proprio così. Dei disegni insignificanti; fatti dalla mia distrazione. Guardo tutto questo come un bifolco delle carte assorbenti, con l’attenzione di chi osserva una novità, con tutto il cervello inerte dietro ai centri cerebrali che comandano la vista.
Ho un intimo sonno, più di quello che posso contenere. E non voglio nulla, non preferisco nulla, non c’è nulla a cui sfuggire.
Sto scrivendo i miei sogni
sulle righe di un quaderno
che sta per finire.
Non riuscirò a sfuggire
all’errore di vivere
ne all’intimo morire.
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