Da “Il libro dell’Inquietudine” [21]

In mezzo al caseggiato, in un alternarsi di luce e di ombra (o meglio, di luce e di minor luce) il mattino si scioglie sulla città. Sembra che esso non nasca dal sole, ma dalla città e che la luce dell’alto si stacchi dai muri e dai tetti: non da essi fisicamente, ma da essi perché sono lì.

Sento, nel sentirla, una grande speranza; ma riconosco che la speranza è letteraria. Mattino, primavera, speranza, sono uniti in musica dalla stessa intenzione melodica; sono uniti nell’anima dallo stesso ricordo di un’uguale intenzione. No: se osservo me stesso come osservo la città riconosco che l’unica cosa che posso sperare è che questo giorno abbia una fine, come tutti i giorni. Anche la ragione vede l’aurora. La speranza che ho riposto in essa, se mai c’era, non era mia: era quella degli uomini che vivono l’ora che passa e dei quali ho assunto, senza volerlo, la consapevolezza esterna in questo momento.

Sperare ? Cosa devo sperare ? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto ? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, al consapevolezza di me stesso.
Mi ricordo all’improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché allora io, non essendo cosciente, ero la vita. Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste. Il bambino è rimasto, ma è ammutolito. Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che fioriscano. Sì, una volta io appartenevo a questo luogo; oggi, ad ogni paesaggio per me nuovo, ritorno straniero, ospite e pellegrino della sua presentazione, forestiero di ciò che vedo e sento, vecchio di me.

Ho già visto tutto, perfino ciò che non ho mai visto e che non vedrò mai. Nel mio sangue scorre perfino il più infimo dei paesaggi futuri e l’angoscia di ciò che dovrò vedere di nuovo è per me una monotonia anticipata.

E affacciato al davanzale, godendomi la giornata al di sopra del volume della città intera, un unico pensiero mi riempie l’animo: il desiderio intimo di morire, di finire, di non vedere più alcuna luce su città alcuna, di non pensare, di non sentire, di lasciare indietro, come una carta da imballaggio, il percorso del sole e dei giorni; di togliermi di dosso, come un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario di essere.


Sento quello che nasce.
E penso a come dovrà morire.

E’ un ciclo che mi rende solo,
come una strada di notte in periferia.


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