Alcune poesie ed il loro specchio ispiratrice...

Riporto in questa pagina alcune poesie tratte dalla terza edizione del libro insieme al testo di Pessoa che le ha suscitate.

Sarebbe stato bello poter pubblicare nel libro "Poetando Pessoa" anche il testo pessoano ma, data la mole di testo, si sarebbe infranta una regola di copyright.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [2]

Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili.

Dentro di me
c’è una finestra
affacciata sulle stelle.

Qui attendo una cometa
per seguire la sua scia
ed abbandonarmi all’infinito.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [4]

Senza nulla di più di ciò che un sorriso rappresenta per l’anima, così, con serenità, considero il chiudersi continuo della mia vita in questa Rua dos Douradores, in questa stanza, nell’ambiente di queste persone. Avere ciò che basta al mio sostegno, un tetto, quel poco spazio nel tempo di libertà per il sogno; scrivere, dormire: cosa altro potrei chiedere agli Dei o voler dal Destino ?
Ho avuto grandi ambizioni e sogni turgidi – ma i sogni li hanno avuti anche il garzone e la sartina, perché tutti sognano. Quello che distingue le persone l’une dalle altre è la forza di farcela, o di lasciare che sia il destino a farla a noi.
Nei miei sogni sono uguale alla sarta e al garzone. Sono diverso da loro solo perché scrivo. Sì, la scrittura è un atto, una mia realtà che mi contraddistingue. Ma nell’anima sono simile ad essi.
So perfettamente che esistono isole del Sud e grandi passioni cosmopolite e […]. Sono sicuro che se tenessi il mondo in pugno lo scambierei per Rua dos Douradores.
Forse la mia sorte è di essere un contabile in eterno; e la poesia o la letteratura una farfalla che posandosi sulla mia testa mi rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.
Avrò nostalgia di Moreira. Ma cosa è la nostalgia in confronto alle vertigini dell’ascensione ?
So perfettamente che il giorno in cui diventerò contabile dell’impresa Vasques & C. sarà uno dei grandi giorni della mia vita. Me ne rendo conto con una previsione amara e ironica, e con il privilegio intellettuale della certezza.


Cosa altro potrei chiedere al destino
se non il tuo sorriso,
per avere ciò che basta al mio sogno
ed al mio sostegno,
al mio scrivere
ed al mio vivere.

Ed infine
al mio prossimo morire.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [7]

Sono entrato dal barbiere con la disposizione consueta, col piacere che mi dà il fatto di poter entrare senza imbarazzo nei luoghi conosciuti. La mia sensibilità al nuovo è terribile: mi sento calmo solo nei luoghi in cui sono già stato.
Mentre mi accomodavo sulla poltrona mi è venuto fatto di domandare al garzone  che mi stava collocando intorno al collo un lino freddo e pulito, come stesse il suo collega che serviva alla poltrona accanto, quel tipo spiritoso, più anziano di lui, che era malato. Glielo ho domandato senza che mi premesse sapere: è stata una domanda suggerita dal luogo e dal ricordo. “E’ morto ieri,” mi ha risposto senza tono la voce che stava dietro di me e le cui dita stavano finendo di inserire l’asciugamano fra la mia nuca e il mio colletto. Tutto il mio immotivato buonumore è svanito all’improvviso, come il barbiere della poltrona accanto, assente per l’eternità. E’ sceso il freddo sui miei pensieri. Non ho detto niente.
Nostalgia ! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta una vita.
Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezza del mattino ? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo ? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria ? Il pallido tabaccaio ? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita ? Domani anch’io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che io sono per me stesso – si, domani anch’io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un “che ne sarà stato di lui ?”. E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.

Ogni volta che ti saluto
scende il freddo nei miei pensieri.

Poiché la mia anima è mutevole,
ed ora che per me sei luce
un giorno potresti essere il buio
nell’universo,
che io sono per me stesso.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [12]

Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. 
Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è mai stato un altro uguale al mondo. L’identità è solo nella nostra anima (l’identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.


Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.


La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova, e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente ? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano ? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiare il buongiorno con l’ozioso barbiere.


Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente ? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle.


Voglio fuggire
da ciò che conosco,
da ciò che è mio,
da ciò che amo.

Voglio fermarmi solo quando
l’eco della tua voce
raggiungerà il mio cuore,
chiamandomi per nome.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [16]

[...], imbarcazioni che passano nella notte e non si salutano e non si conoscono […]

Un giorno saremo
come due barche,
“che passano nella notte
e non si salutano
e non si conoscono”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [18]

Nelle prime giornate dell’autunno giunto all’improvviso, quando l’imbrunire acquista l’evidenza di un avvenimento prematuro e ci sembra di aver indugiato troppo sulle nostre faccende quotidiane, io assaporo, anche nel bel mezzo del lavoro quotidiano di ogni giorno, questa anticipazione dell’ozio che l’ombra reca, perché è notte – e la notte è sonno, focolare, liberazione. Quando si accendono le luci nell’ampio ufficio che emerge dall’oscurità, e noi ci accingiamo allo straordinario serale senza nessuna sosta per l’intera giornata, sento un conforto assurdo come se fosse il ricordo di un altro, e scrivendo mi sento tranquillo, come se leggessi aspettando il sonno.

Siamo tutti schiavi di circostanze esterne: una giornata di sole ci spalanca vasti campi in mezzo a un caffè di vicolo; un’ombra in campagna ci fa ritrarre dentro di noi e cerchiamo riparo alla meno peggio nella casa priva di porte di noi stessi; un imbrunire, perfino fra le cose del giorno, allarga, come un ventaglio che si apre lentamente, l’intima consapevolezza di dover riposare.

Eppure il lavoro non subisce ritardi: si anima. Non lavoriamo più; ci intratteniamo con il dovere a cui siamo condannati. E all’improvviso, attraverso il foglio grande e rigato del mio destino algebrico, la vecchia casa delle zie antiche, chiusa sul mondo, alberga il sonnolento tè delle dieci, e la lampada a petrolio della mia infanzia perduta, che brilla solo sul lino del tavolo, mi oscura, con la sua luce, la visione di Moreira, illuminato da una elettricità nera, molti infiniti lontano da me. Viene servito il tè (lo serve la cameriera più vecchia delle zie, con avanzi di sonno e il cattivo umore paziente della tenerezza di un antico vassallaggio) e io scrivo senza sbagliare una cifra o una somma attraverso tutto il mio passato morto. Mi riassorbo, mi perdo in me stesso, mi dimentico in notti lontane, incontaminate di dovere e di mondo, vergini di mistero e di futuro.

E talmente soave è la sensazione che mi estranea dal debito e dal credito che, se qualcuno mi interpella, rispondo con dolcezza, come se il mio essere fosse vuoto, come se io fossi soltanto la macchina da scrivere che porto con me, portatile di un me stesso aperto. L’interruzione dei miei sogni non mi turba: sono sogni così dolci che continuo a sognarli mentre parlo e rispondo e converso. E in tutto questo, il tè perduto termina, ed è il momento di chiudere l’ufficio… Alzo dal libro che chiudo lentamente gli occhi esausti per lacrime non versate, e con un miscuglio di sentimenti soffro, perché con la chiusura dell’ufficio si chiude anche il mio sogno; perché il gesto della mia mano che chiude il registro occulta il mio passato irreparabile; perché mi reco al letto della vita privo di sonno, di compagnia e di tranquillità, nel flusso e riflusso della mia consapevolezza confusa come due maree che si mescolano nella notte buia, al limite dei destini della nostalgia e della desolazione.
  

Siamo “come due maree
che si mescolano
nella notte buia,
 al limite dei destini”,
sogni di notti lontane
immerse nel mistero
ed ansiose di futuro.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [21]

In mezzo al caseggiato, in un alternarsi di luce e di ombra (o meglio, di luce e di minor luce) il mattino si scioglie sulla città. Sembra che esso non nasca dal sole, ma dalla città e che la luce dell’alto si stacchi dai muri e dai tetti: non da essi fisicamente, ma da essi perché sono lì.

Sento, nel sentirla, una grande speranza; ma riconosco che la speranza è letteraria. Mattino, primavera, speranza, sono uniti in musica dalla stessa intenzione melodica; sono uniti nell’anima dallo stesso ricordo di un’uguale intenzione. No: se osservo me stesso come osservo la città riconosco che l’unica cosa che posso sperare è che questo giorno abbia una fine, come tutti i giorni. Anche la ragione vede l’aurora. La speranza che ho riposto in essa, se mai c’era, non era mia: era quella degli uomini che vivono l’ora che passa e dei quali ho assunto, senza volerlo, la consapevolezza esterna in questo momento.

Sperare ? Cosa devo sperare ? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto ? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, al consapevolezza di me stesso.
Mi ricordo all’improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché allora io, non essendo cosciente, ero la vita. Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste. Il bambino è rimasto, ma è ammutolito. Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che fioriscano. Sì, una volta io appartenevo a questo luogo; oggi, ad ogni paesaggio per me nuovo, ritorno straniero, ospite e pellegrino della sua presentazione, forestiero di ciò che vedo e sento, vecchio di me.

Ho già visto tutto, perfino ciò che non ho mai visto e che non vedrò mai. Nel mio sangue scorre perfino il più infimo dei paesaggi futuri e l’angoscia di ciò che dovrò vedere di nuovo è per me una monotonia anticipata.

E affacciato al davanzale, godendomi la giornata al di sopra del volume della città intera, un unico pensiero mi riempie l’animo: il desiderio intimo di morire, di finire, di non vedere più alcuna luce su città alcuna, di non pensare, di non sentire, di lasciare indietro, come una carta da imballaggio, il percorso del sole e dei giorni; di togliermi di dosso, come un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario di essere.


Sento quello che nasce.
E penso a come dovrà morire.

E’ un ciclo che mi rende solo,
come una strada di notte in periferia.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [32]

Fin dal primo mattino, a dispetto della consuetudine solare di questa città chiara, un manto leggero di nebbia, indorato a poco a poco dal sole, avvolgeva la successione delle case, la mancanza di soluzione degli spazi, i dislivelli del terreno e degli edifici. Poi, al sopraggiungere del mattino pieno, la bruma leggera ha cominciato a sfilacciarsi e a dissolversi in maniera indefinibile con aliti di ombre di veli. Verso le dieci, soltanto l’azzurro torbido del cielo rivelava il passaggio della nebbia.

Con la caduta della maschera offuscante, il volto della città è risorto: come se una finestra si spalancasse, il giorno già alto si è alzato. Si è verificato un leggero cambiamento nel rumore di ogni cosa. Poi altri rumori si sono levati. Una intonazione di azzurro si è insinuata persino nelle pietre delle strade e nell’aura impersonale dei passanti. Il sole era caldo, ma di un caldo ancora umido. La nebbia ormai inesistente lo filtrava in modo invisibile.

Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Ci sono molte più cose che tornano alla vita, ci sono molte più cose da aspettarsi quando il sole, invece di imitarsi a indorare (prima di luce oscura, poi di luce umida, infine di oro luminoso) i prati, le sporgenze degli arbusti, le palme delle mani delle foglie, moltiplica i suoi possibili effetti sui muri, sulle finestre, sui tetti […]. Un’aurora in campagna mi fa stare bene; un’aurora in città mi fa stare bene e male, e perciò mi fa star meglio. Sì perché la maggiore speranza che mi arreca possiede, come tutte le speranze, il sapore lontano e nostalgico di non essere realtà. Un mattino in campagna esiste; un mattino in città promette; il primo fa vivere; il secondo fa pensare. E io sentirò sempre, come i grandi maledetti, che è meglio pensare che vivere.

La maggiore speranza
che mi arrechi
con la tua presenza
mi grida di nostalgia.

Non sei realtà
ma solo forma
del mio pensiero.

La speranza fa vivere,
la nostalgia pensare.

“Ed io sentirò sempre,
come i grandi maledetti,
che è meglio pensare
che vivere”.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [36]

Oh, notte dove le stelle mentiscono luce, notte, unica cosa della dimensione dell’Universo, fammi diventare, corpo e anima, parte del tuo corpo, fa che io mi perda nel fatto di essere mera tenebra e diventi notte anche io, senza sogni che siano stelle in me né sole aspettato che risplenda dal futuro.

Annego il mio essere
in questa notte senza stelle
e faccio del mio cuore
una barca alla deriva…


Da “Il libro dell’Inquietudine” [37]

Se qualcuno volesse redigere un campionario di mostri non dovrebbe far altro che fotografare con parole quelle cose che la notte porta agli animi assopiti che non riescono a prendere sonno. Queste cose posseggono tutta l’incoerenza del sogno senza l’incognito alibi dello stare dormendo. Si librano come pipistrelli sulla passività dell’anima o vampiri che succhiano il sangue della sottomissione. Sono larve del precipizio e della dissipazione; ombre che riempiono la valle, le orme che restano del destino. A volte sono vermi che provocano nausea alla stessa coscienza che li culla e che li crea; altre volte sono spettri, e sinistramente rondano il nulla; altre volte ancora emergono come serpi dalle assurde caverne delle emozioni perdute. Zavorra del falso, non servono ad altro che non a farci essere inutili. Sono dubbi dell’abisso che appiattiti nell’animo trascinano pieghe sonnolente e fredde. Hanno durata di fumo, passaggio di orme; e altro non c’è se non l’essere esistiti nella sterile sostanza della consapevolezza che abbiamo avuto di essi. Alcuni sono come l’elemento recondito di un fuoco d’artificio: s’incendia un attimo fra i sogni; e il resto è l’inconsapevolezza della consapevolezza con cui lo abbiamo visto.

Fiocco sciolto, l’anima non esiste in se stessa. I grandi paesaggi sono per il domani, e noi abbiamo già vissuto. La conversazione interrotta è fallita. Chi lo avrebbe mai detto che la vita sarebbe stata così ?

Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita in se stessa è una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo.

Sarei felice se potessi dormire. E’ una opinione di ora, perché non dormo. La notte è un peso immenso dietro al soffocamento della coperta muta di ciò che sogno. Ho una indigestione nell’animo.

Sempre, dopo il dopo, verrà il giorno, ma sarà tardi, come sempre. Tutto dorme ed è felice, ma non io. Riposo un poco senza osare dormire. E grandi teste di mostri inesistenti emergono confuse dal fondo di chi io sono: draghi dell’Oriente dell’abisso, con lingue di un rosso illogico, con occhi che guardano senza vita la mia vita morta che non li guarda.

Il coperchio, per l’amore del cielo, il coperchio ! Mi completino l’incoscienza e la vita ! Per fortuna, dalla finestra fredda con le imposte aperte, un triste filo di luce pallida comincia a spezzare l’ombra dall’orizzonte. Per fortuna, ciò che sta per nascere è il giorno. E mi acquieto quasi della stanchezza dell’inquietudine. Un gallo canta, assurdo, in piena città. Il giorno livido comincia nel mio vago sonno. Una volta dormirò. Un rumore di ruote è una carrozza. Le mie palpebre dormono, ma io non dormo. Tutto, finalmente, è il Destino.
  

Le ombre del Destino
sono dubbi freddi
sospesi nell’animo.

E come fumo di fuochi d’artificio
compaiono per un attimo tra i sogni,
lasciandoci solo la mera inconsapevolezza

della consapevolezza che li abbiamo posseduti.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [42]

Alcuni mesi son trascorsi dalle ultime cose che ho scritto. Ho attraversato un sonno dell’intelletto grazie al quale la mia vita è  stata la vita di un altro. Ho avuto frequentemente una sensazione di felicità traslata. Non sono esistito, sono stato un altro, ho vissuto senza pensare.

Oggi, all’improvviso, sono tornato a ciò che sono o sogno di essere. E’ stato un momento di grande stanchezza, dopo un lavoro senza particolare importanza. Ho poggiato la testa contro le mie mani, con i gomiti appoggiati all’alto tavolo inclinato. E, ad occhi chiusi, mi sono ritrovato.

In un falso sonno lontano ho ricordato tutto quanto ero stato, ed  è con nitidezza della vista di un paesaggio che mi si è alzata all’improvviso, prima o dopo tutto, la parte larga del vecchio podere di campagna, dove a metà della visione, l’aia era vuota.

Ho sentito subito l’inutilità della vita. Vedere, sentire, ricordare, dimenticare: tutto questo mi si è confuso in un vago dolore ai gomiti, con il mormorio incerto della strada vicina e i piccoli rumori del lavoro tranquillo nell’ufficio calmo.

Quando ho appoggiato le mani sul tavolo inclinato e ad esso ho rivolto lo sguardo che doveva essere di una stanchezza piena di mondi morti, la prima cosa che ho visto, nel vedere, è stata una grossa mosca (quel lieve ronzio che non era dell’ufficio) posata sul calamaio. L’ho contemplata dal fondo dell’abisso, anonimo e sveglio. Aveva dei toni verdi di un azzurro nero con un luccichio ributtante ma non brutto. Una vita!
Chissà se per ignote forze supreme (dèi o demoni della Verità nella cui ombra erriamo), anch’io non sarò la mosca luccicante che si posa un attimo davanti a loro ? Un pensiero facile ? Un’osservazione già vecchia ? Una filosofia senza sostanza ? Forse; ma io non ho pensato: ho sentito. E’ stato carnalmente, direttamente, con un orrore profondo e […] ho fatto il risibile paragone. Sono stato mosca quando mi sono paragonato ad una mosca. Mi sono sentito mosca quando ho creduto di sentirlo. E mi sono sentito un’anima di mosca, ho dormito da mosca, mi sono sentito rinchiuso come una mosca. E il più grande orrore è che nello stesso tempo mi sono sentito io. Senza volere ho alzato gli occhi verso il soffitto, nel caso non scendesse su di me un righello supremo per schiacciarmi, come io potrei schiacciare quel moscone con il mio righello. Per fortuna, quando ho abbassato gli occhi, la mosca senza fare rumore era sparita. Involontariamente l’ufficio era di nuovo privo di filosofia.


Quando chiudo gli occhi

e ti penso, non sento più
l’inutilità della vita
per i sogni
che la tua anima
mi offre.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [46]

Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta.

Cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all’altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell’emozione: questo e solo questo vale la pena di essere o di avere, per essere o avere quello che in modo imperfetto siamo.

Quest’alba è la prima alba del mondo. Questo colore rosa, che attraverso il giallo volge verso un caldo bianco, non si è mai posato prima sulla facciata occidentale che il caseggiato con i suoi occhi vitrei punta sul silenzio che sopraggiunge dalla luce crescente. Mai c’è stata quest’ora, o questa luce, o questo mio essere. Ciò che sarà domani sarà un’altra cosa e ciò che vedrò sarà visto da occhi ricomposti, pieni di una nuova visione.

Alti monti della città! Grandi architetture che i pendii scoscesi reggono e ingrandiscono, slittare di edifici raggrumati in varie forme che la luce intesse di ombre e di ustioni: siete l’oggi, siete me; poiché vi vedo siete ciò che […] e vi amo dalle mie murate come un piroscafo che incrocia un altro piroscafo e c’è un’ignota nostalgia al passaggio.
Dalla terrazza di questo caffè guardo con un fremito la vita. Vedo poco di essa: il suo disordine, in questo suo concentrarsi entro questa piazzetta nitida e mia. Una fiacchezza, come il principio di una sbornia, mi illumina di cose l’anima. Fuori di me, nei passi dei passanti […] scorre la vita evidente e unanime.

In quest’attimo i miei sensi si assopiscono e tutto mi sembra un’altra cosa: le mie sensazioni sono un errore confuso e lucido, apro le ali ma non mi muovo, come un condor ipotetico.

Quale uomo di ideali, chissà se la mia aspirazione più alta non sia quella di occupare questa seggiola al tavolo di questo caffè ?

Ogni cosa è vana come rimestare la cenere, vaga come il momento in cui non è ancora l’alba.

E la luce sgorga così serenamente e perfettamente sulle cose, le avvolge talmente di realtà ilare e mesta! Tutto il mistero del mondo precipita fino a materializzarsi davanti ai miei occhi in banalità e strada.

Ah, in quale modo le cose quotidiane sfiorano misteri in noi! In quale modo alla superfice toccata dalla luce di questa vita così complessa in quanto umana, l’Ora, sorriso incerto, sale alle labbra del Mistero! Come sembra moderno tutto ciò! E allo stesso tempo così antico, così occulto, con un senso così diverso da quello che risplende in tutto!


Essere nuovo ad ogni alba,
offrire alla vita la verginità delle emozioni
e non ricordare oggi
quello che si è sentito ieri.

Poiché ogni cosa “è vana come
rimestare la cenere e noi
siamo in modo imperfetto”


Da “Il libro dell’Inquietudine” [65]

Dietro alle prime tregue della morente estate sono sopraggiunti, nella casualità della sera, certi coloriti più blandi del cielo ampio, certi ritocchi di brezza fresca che annunciavano l’autunno. Non era ancora lo scemare del verde del fogliame, o lo staccarsi delle foglie, né quella vaga angustia che accompagna la nostra consapevolezza della morte esterna, perché sarà anche la nostra. Era come una stanchezza della vitalità esistente, un vago sonno che invadeva gli ultimi gesti dell’agire. Ah, sono sere di una indifferenza così addolorata che, prima di cominciare nelle cose, l’autunno comincia in noi.

Ogni autunno che arriva è più vicino all’ultimo autunno che avremo; e ciò vale anche per l’estate; ma la natura dell’autunno fa venire in mente la fine di tutto, cosa che in estate è facile dimenticare. Non è ancora l’autunno, non c’è ancora nell’aria il giallo delle foglie morte o la tristezza umida del futuro inverno. Ma c’è una incrinatura di tristezza anticipata, c’è un dolore pronto a partire nell’attenzione che prestiamo ai colori diffusi delle cose, al diverso tono del vento, alla quiete che sul far della notte si diffonde sull’inevitabile presenza dell’universo.

Sì, passeremo tutti, passerà tutto. Nulla restava di colui che usava sentimenti e guanti, di colui che parlava della morte e della politica locale. Come esiste la luce che illumina i volti beati e le ghette dei passanti, ci sarà la mancanza di luce che lascerà al buio il nulla che resterà del fatto che alcuni furono santi ed altri portatori di ghette. Nel vasto mulinello, come quello delle foglie secche, in cui giace indolentemente il mondo intero, hanno lo stesso valore i regni e i vestiti delle sarte, e le trecce delle bambine bionde vanno nello stesso giro mortale degli scettri che simboleggiarono imperi.

Tutto è niente, e nell’Atrio dell’Invisibile la cui porta aperta mostra soltanto, di fronte a sé, una porta chiusa, ballano tutte le cose, serve di quel vento che le rimescola senza mani, indifferentemente piccole e grandi, che hanno formato, per noi e in noi, il sistema avvertito dell’universo. Tutto è ombra e polvere agitata, e non c’è altra voce s non il rumore di ciò che il vento innalza e trascina, né altro silenzio se non quello di ciò che il vento lascia.. Alcuni, foglie lievi e facili da sollevare perché più leggeri, si alzano dal mulinello dell’Atrio e cadono lontano dal mucchio di coloro che sono pesanti. Altri, invisibili quasi, polvere uguale, diversa solo ad osservarla da vicino, si scavano un giaciglio nel mulinello. Altri ancora, miniature di tronchi, sono trascinati intorno e muoiono qua e là. Un giorno, alla fine della conoscenza delle cose, la porta di fondo si aprirà e tutto quello che siamo stati – detriti di stelle e di anime – sarà spazzato fuori dalla casa affinché quello che esiste ricominci.

Il mio cuore mi fa male come un corpo estraneo. Il mio cervello dorme quando io sento. Sì, è l’inizio dell’autunno che porta all’aria ed alla mia anima quella luce senza sorriso che orla di giallo morto le rotondità sfumate delle poche nuvole del tramonto. Sì, è l’inizio dell’autunno, e chiara è la consapevolezza, nell’ora limpida, dell’insufficienza anonima di ogni cosa. L’autunno, sì, l’autunno, quello che esiste ora o quello che esisterà poi, e la stanchezza anticipata di ogni gesto, la delusione anticipata di ogni sogno. Cosa posso sperare, e da che cosa ? Ormai, in ciò che penso di me, vago fra le foglie e la polvere dell’Atrio, nell’orbita priva di senso di nessuna cosa, facendo un rumore di vita sulle lastre pulite che un sole obliquo illumina di morte da un luogo ignoto.

Tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho fatto e che non ho fatto: tutto se ne andrà in autunno, come i fiammiferi usati che ricoprono il pavimento in diversi sensi, o i fogli di carta appallottolati in palline false, o i grandi imperi, tutte le religioni, le filosofie con le quali si sono baloccati i bambini sonnolenti dell’abisso. Tutto quanto fu la mia anima, dalle mie aspirazioni più nobili fino alla povera casa dove abito, dagli dèi che ho avuto fino al principale, il sign. Vasques: tutto se ne va in autunno, tutto nell’autunno, nella tenerezza indifferente dell’autunno. Tutto nell’autunno, sì, tutto nell’autunno.


Sei come brezza
che attraversa me stesso.

E così come sento la freschezza
di tale passaggio,
ne odo anche la delusione anticipata
di quando esso cesserà,
portando con se
l’afa insopportabile.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [66]

Lento, nel chiarore lunare della notte lenta, il vento là fuori muove cose che fanno ombra nel muoversi. Forse non sono soltanto i panni stesi al piano superiore, ma l’ombra in sé non conosce camicie e fluttua impalpabile in un accordo muto con tutte le cose.

Ho lasciato le imposte aperte per svegliarmi presto, ma fino ad ora (e la notte è già così avanzata che non si sente nulla) non ho potuto abbandonarmi al sonno né restare completamente sveglio. Il chiarore lunare sta oltre le ombre della mia camera senza penetrare dalla finestra. Esiste, come una giornata di argento vuoto, e i tetti del palazzo dirimpetto che vedo dal letto sono liquidi di oscurata bianchezza. Come un augurio che venga dall’alto a chi non può sentire, c’è una pace triste nella luce dura della luna.

E senza vedere, senza pensare, gli occhi ormai chiusi nel sonno assente, penso con quali parole vere si può descrivere un chiarore lunare. Gli antichi direbbero che il chiardiluna è bianco, o che è d’argento. Ma il biancore falso del chiardiluna è di molti colori. So che se mi alzassi dal letto e guardassi da dietro i vetri freddi nell’alta aria isolata, il chiardiluna sarebbe di un bianco grigio azzurrino sul giallo sfumato; che sui tetti variati, con dislivelli di oscurità degli uni sugli altri, il chiarore talvolta indora di bianco-nero gli edifici docili, altre volte inonda di un colore privo di colore il rosso marrone delle tegole alte. In fondo alla strada, placido abisso dove le pietre nude si arrotondano irregolarmente, non c’è altro colore che l’azzurro che proviene forse dal grigio delle pietre. Sul lontano orizzonte c’è una sorte di blu scuro, diverso dal blu nero del cielo basso. Sulle finestre il chiarore lunare è di un giallo-nero.

Da qui, dal mio letto, se apro gli occhi assonnati da un sonno che io non ho, c’è un’aria di neve trasformatasi in colore sul quale galleggiano filamenti di madreperla tiepida.

E, nel pensarlo con i sensi, il chiardiluna è un tedio fatto ombra bianca che si oscura come se gli occhi si chiudessero su questo biancore indistinto.

Penso di te in molti modi.

E come il falso biancore del chiardiluna
assume sfumature colorate
a seconda di dove si posa e cosa attraversa,
così il mio volere te si concretizza in sogni
fatti di ombre colorate a seconda
della profondità dell’anima da cui hanno origine.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [70]

Oggi mi sono svegliato molto presto con uno scatto intricato, e mi sono alzato subito dal letto in preda al soffocamento di un tedio incomprensibile che non era stato provocato da alcun sogno; e che nessuna realtà poteva aver provocato. Era un tedio assoluto e completo ma fondato su qualcosa. Nel fondo oscuro della mia anima, invisibili, si combattevano forze sconosciute, e il mio essere era il terreno di battaglia e io tremavo per lo scontro ignoto. Una nausea fisica della vita intera si è verificata al mio risveglio. Un orrore per il dover vivere si è alzato dal letto insieme a me. Tutto mi è sembrato vuoto e ho avuto la fredda impressione che non esiste soluzione per nessun problema.

Un’enorme inquietudine mi faceva rabbrividire i minimi gesti. Ho avuto paura di impazzire non di follia ma proprio per i gesti. Il mio corpo era un grido latente. Il mio cuore batteva come se singhiozzasse.

Scalzo, a passi larghi e falsi che invano cercavo di rendere diversi, ho percorso la piccola lunghezza della camera e la diagonale vuota della stanza interna con la porta all’angolo che dà sul corridoio. Con movimenti incoerenti e imprecisi ho sfiorato le spazzole sul cassettone, ho spostato una sedia ed ho urtato con la mano oscillante il ferro ruvido dell’inferriata del letto inglese. Ho acceso una sigaretta che ho fumato senza rendermene conto, e solo vedendo la cenere caduta sul capezzale (come è stato possibile, se non mi ero chinato sul capezzale ?) ho capito che ero posseduto, o qualcosa di analogo nell’essere, se non nel nome, e che la consapevolezza che avrei dovuto avere di me stesso si alternava con l’abisso.
E’ arrivato l’annunzio dell’alba, la scarsa luce fredda che colora di un vago azzurro bianco l’orizzonte che si disegna, come un bacio di gratitudine delle cose. Nel senso che quella luce, quel vero giorno, mi liberava, mi liberava non so da che cosa, offriva il braccio alla mia vecchiaia ignota, accarezzava la mia infanzia posticcia, sosteneva il riposo mendicante della mia sensibilità dilagante. Ah, che mattino è mai questo, che mi sveglia alla stupidità della vita ed alla sua grande tenerezza ! E ho quasi le lacrime agli occhi nel vedere schiarirsi davanti a me, sotto di me, la vecchia strada stretta; e quando le imposte della drogheria dell’angolo diventano di un marrone sporco alla luce traboccante, il mio cuore prova un sollievo da racconto di fate reali e comincia a conoscere la sicurezza di non sentirsi.

Quale mattino è questa pena ! E quali ombre si allontanano ? E quali misteri ci sono stati ? Nulla: il suono del primo tram è come un fiammifero che illumina il buio dell’anima, e i passi alti del primo passante sono la realtà concreta che mi esorta con voce amichevole a non essere così.

Ho le lacrime agli occhi
quando l’alba si annuncia
ed il mio cuore,
lasciate le fate,
ritorna a conoscere
la durezza della vita.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [71]

Si è il tramonto. Sbocco sulla foce di Rua de Alfandega, neghittoso e disperso, e quando mi rischiara il Terreiro do Paço, vedo, nitida, la luminosità senza sole del cielo occidentale. E’ un cielo di un azzurro verdino che sfuma nel grigio bianco, dove, dalla parte sinistra, sui monti dell’altra riva, si accovaccia in un cumulo una nebbia brunita da un rosa vecchio. C’è una grande pace dispersa freddamente nell’autunnale aria distratta: una grande pace che io non ho. Non avendola, patisco il vago piacere di supporre che essa esista. Ma, in realtà, non c’è pace o mancanza di pace: solo cielo, cielo pieno di colori che languiscono: azzurro bianco, verde azzurrino, grigio pallido fra il verde e l’azzurro, vaghi toni remoti di colori di nuvole che non sono nuvole, giallamente ombrate di un rosso spossato. E tutto costituisce una visione che si esaurisce nello stesso momento in cui ha luogo, un intervallo fra nulla e nulla, alato, collocato in alto, prolisso ed indefinito, con tonalità di cielo e angustia.

Sento e dimentico. Una nostalgia, quella nostalgia che tutti hanno per tutto, mi invade come un oppio di aria fredda. C’è in me un’ estasi di vedere, intima e posticcia.

Dalle parti della foce, dove l’estinto sole sempre più su si estingue, al luce muore in un bianco livido che si azzurra di verdastro freddo. C’è nell’aria il torpore di ciò che non si ottiene mai. Tace alto il paesaggio del cielo.

In quest’ora, in cui sento fino a traboccare, vorrei avere la malizia intera di dire, e per destino il libero capriccio di uno stile. E invece no. Soli il cielo alto e remoto, che si abolisce, è tutto; e l’emozione che ho, e che sono tante emozioni, unite e confuse, non è altro che il riflesso di questo cielo nullo di un lago in me, lago prigioniero fra irte rocce, silente, sguardo di morto, in cui l’altezza si contempla dimentica.

Tante volte, tante, come ora, mi è stato grave sentire che sento; sentire come una angustia, solo perché è “sentire”, l’inquietudine di star qui, la nostalgia di un’altra cosa  che non si è conosciuta, il ponente di tutte le emozioni; sentire ingiallirmi consunto dalla cinerea tristezza nella mia coscienza esterna di me.

Ah, chi mi salverà dall’esistere ? Non è la morte che voglio, né la vita: è quel qualcosa che brilla nel fondo dell’inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. E’ tutto il peso e tutta la pena di questo universo reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell’aria fittizia da cui l’immaginaria falce e crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità.

E’ tutta l’assenza di un Dio vero che è il cadavere vacuo del cielo alto e dell’anima chiusa. Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te!
  
Ho bisogno di qualcuno
che mi dia pace,
pace interiore.

Ma sento e dimentico,
 e le emozioni che ho
sono solo i riflessi del tuo pensiero,
che si specchia in quel lago agitato
che è la mia anima.

La pace interiore brilla
nel fondo dell’inquietudine
ma è un diamante in un pozzo
dove non si può scendere.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [74]

Viaggiare ? per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre più uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.

Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio ? Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire.

“Qualsiasi strada, questa stessa strada di Entepfuhl, ti porterà in capo al mondo.”. Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli intorno, è lo stesso Entepfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. E’ in noi che i paesaggi hanno paesaggio. 

Perciò, se li immagino, li creo; se li creo, esistono; se esistono, li vedo come vedo gli altri. A che scopo viaggiare ? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni ?

La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.



Sto cadendo sempre di più
dentro me stesso, fino
alle origini delle mie sensazioni.
Da qui osservo
il cadavere che trascino
e mi accorgo che
“la vita è ciò
che facciamo di essa.”


Da “Il libro dell’Inquietudine” [83]

In ogni goccia di pioggia la mia vita fallita piange nella natura. C’è un po’ della mia inquietudine nel gocciolio, nelle raffiche attraverso le quali la tristezza della giornata si rovescia inutilmente sulla terra.
Piove tanto, tanto. Ho l’anima umida a forza di sentirlo. Tanto…la mia carne è liquida e acquosa intorno alla sensazione che ho di essa.

Un freddo inquieto pone delle mani gelide intorno al mio povero cuore. Le ore cineree e […] si allungano, si impianurano nel tempo: gli istanti si trascinano.

Come piove !

Le grondaie vomitano minuscoli torrenti di acqua sempre nuova. Perfino sul fatto che io presti attenzione alle grondaie scende un rumore molesto di acqua. Batte contro la vetrata, indolentemente, lamentosamente la pioggia; […].

Una mano fredda mi stringe la gola e non mi permette di respirare la vita.
Tutto muore in me, anche il sapere che posso sognare !

Non riesco a trovare pace in nessuna posizione. Anche la cosa più morbida su cui mi adagio ha degli spigoli per la mia anima. Tutti gli sguardi che guardo sono così scuri perché batte in loro la luce impoverita di questa giornata propizia a morire senza dolore.
  

Piove tanto
ed in ogni goccia di pioggia
rivedo la mia inquietudine.
Anche l’anima è umida
ed un freddo inquieto attanaglia
il mio cuore e
 non mi permette
di gridare alla vita.

Come piove!
Il rombo di un tuono
si disegna qui,
dentro di me
inquieto.
“Tutto muore in me,
anche il sapere
che posso sognare.”


Da “Il libro dell’Inquietudine” [85]

Nebbia o fumo ? Saliva dalla terra o scendeva dal cielo ? Chissà: più che una discesa o una emanazione sembrava una malattia dell’aria. A volte sembrava un disturbo degli occhi piuttosto che una realtà della natura.

Qualunque cosa fosse, una torva inquietudine attraversava il paesaggio; una inquietudine fatta di dimenticanza e di attenuazione. Era come se il silenzio del sole malvagio prendesse come suo un corpo imperfetto. Si sarebbe detto che stesse per succedere qualcosa e che dappertutto ci fosse un’intuizione con cui il visibile si 
copriva.

Era difficile dire se nel cielo vi erano nuvole o nebbia.

Era un torpore opaco, colorato qua e là, un grigiore imponderabilmente giallastro eccetto laddove si sfaldava in un rosa falso o laddove ristagnava diventando azzurro; ma non si discerneva se là era il cielo che si rivelava o se era un altro azzurro che lo copriva.

Nulla era definito, neppure l’indefinito. Per questo veniva voglia di definire la nebbia fumo, perché essa non sembrava nebbia; o chiedere se era nebbia o fumo, perché non si capiva cosa fosse. Perfino la temperatura dell’aria corroborava il dubbio. Non era caldo né freddo né fresco; la temperatura sembrava composta da elementi tolti da cose diverse dal caldo. Si sarebbe detto in realtà che una nebbia, fredda a vedersi, era calda al tatto, come se tatto e vista fossero due modi sensibili dello stesso senso.

E intorno alle sagome degli alberi o agli spigoli degli edifici, non c’era quel dissolversi di sagome o di spigoli che porta con sé la vera nebbia, quando ristagna, o che il vero fumo, naturale, socchiude e offusca. Era come se ogni cosa proiettasse un’ombra vagamente diurna in tutti i sensi, senza una luce che la giustificasse in quanto ombra, senza un luogo di proiezione che la giustificasse in quanto visibile.

E non era neanche visibile: era come un inizio di qualcosa che si sarebbe vista, ma dappertutto in modo uguale, come se quello doveva essere rivelato esitasse ad apparire.

E che sentimento c’era ? L’impossibilità di averlo, il cuore disfatto nel cervello, i sentimenti confusi, un torpore di esistenza desta, un perfezionamento di qualcosa di animistico come l’udito, verso una rivelazione definitiva, inutile, sempre sul punto di apparire, come la verità, sempre, come la verità, gemella del non apparire mai.

Ho allontanato persino la voglia di dormire che il pensiero ricorda, perché il mero sbadiglio di averla sembra uno sforzo. Persino cessare di vedere fa male agli occhi. E nell’abdicazione incolore di tutta l’anima soltanto i rumori esterni in lontananza sono il mondo impossibile esiste ancora.

Ah, un altro mondo, altre cose, un’altra anima con cui sentirle, un altro pensiero col quale sapere di quell’anima!

Tutto, perfino il tedio; ma non questo anodino sfumare dell’anima e delle cose, questo abbandono azzurrino dell’indefinizione di tutto!

Vorrei avere un’altra vita,
“un altro mondo, altre cose,
un’altra anima con cui sentirle,
un altro pensiero” con cui riconoscerle.


Da “Il libro dell’Inquietudine” [87]

E finalmente, sopra l’oscurità dei tetti lustri, la luce fredda del tiepido mattino appare come un supplizio dell’Apocalisse. E’ di nuovo l’immensa notte della luce che cresce. E’ di nuovo l’orrore di sempre: il giorno, la vita, l’utilità fittizia, l’attività senza soluzione. E’ di nuovo la mia persona fisica, visibile, sociale, trasmissibile attraverso parole che non dicono nulla, utilizzabile dai gesti altrui e dalla coscienza altrui. Sono io un’altra volta, così come non sono. Con l’inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre (quanto lontano dall’essere ermetiche, Dio mio!), sento a poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di sognare senza sapere che c’è verità o realtà fra un caldo fresco di biancheria pulita e una conoscenza, salvo per il conforto, dell’esistenza del mio corpo. Sento a poco a poco che mi sfugge, l’incoscienza beata con la quale sto assaporando la mia coscienza, il sonnecchiare animalesco con cui spio, con palpebre di un gatto al sole, i movimenti della logica della mia immaginazione separata. Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste e il sussurrare delle cascate perdute fra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo.

Non so se dormo o se invece sento soltanto di dormire. Non sogno l’intervallo vero ma come se cominciassi a svegliarmi da un sonno non dormito, avverto i primi rumori della vita della città che salgono come una piena dal luogo vago, laggiù in fondo, dove stanno le strade che Dio ha fatto. Sono rumori allegri, filtrati dalla tristezza della pioggia che cade o che forse è caduta, perché ora non la sento…( c’è solo il grigiore eccessivo della luce fessurata fino a un dove più lontano che, nelle ombre di un chiarore debole, mi comunica l’insufficienza per questo momento dell’alba che non solo quale è). Sono suoni allegri e dispersi e mi fanno male nella coscienza come se attraverso di essi fossi chiamato per un esame o per un’esecuzione. Ogni giorno che sento sorgere dal letto nel quale la conoscenza mi è vietata, mi sembra il giorno di un grande avvenimento che non avrò coraggio di affrontare. Ogni giorno, se avverto quel giorno che si leva dal letto delle ombre, con un cadere di lenzuola giù per le strade e per i vicoli, ogni giorno viene a chiamarmi davanti a un tribunale. Sarò processato ogni oggi che esiste. E il condannato perenne che c’è in me si aggrappa al letto come alla madre che ha perduto, e accarezza il guanciale come se la nutrice lo difendesse dalla gente.

Il riposo felice del grosso animale all’ombra degli alberi, la fresca spossatezza del vagabondo fra l’erba alta, il torpore del negro nel pomeriggio tiepido e lontano, la delizia dello sbadiglio che pesa sugli occhi stanchi, tutto ciò che lusinga l’oblio nel dare sonno, la quiete del riposo nella testa, che chiude piano le imposte dell’anima, la carezza anonima di dormire.

Dormire, essere lontano senza saperlo, esser coricato, dimenticare con il corpo; avere la libertà di essere incosciente, un rifugio del lago dimenticato immobile fra chiome di alberi, nelle vaste lontananze delle foreste.

Un nulla con respiro dal di fuori, una morte lieve dalla quale ci si risveglia con nostalgia e freschezza, un cedere dei tessuti dell’anima ai panni dell’oblio.
Ah, e ancora una volta, come la rinnovata protesta di chi non è convinto, sento il frastuono brusco della pioggia che sciaborda nell’universo schiarito. Sento un freddo fin dentro le ossa ipotetiche, come se avessi paura.  E accoccolato, annientato, umano, solo con me stesso nella poca tenebra che ancora mi resta, piango, si, piango, piango di solitudine e di vita, e la mia pena superflua come un’automobile senza ruote giace sull’orlo della realtà fra gli sterchi dell’abbandono. Piango per tutto: la perdita del grembo, la morte della mano che qualcuno mi tendeva, le braccia che ignoravo come mi abbracciavano, la spalla che non potrei mai avere…E il giorno che sorge definitivamente, la pena che sorge in me come la verità cruda del giorno, quello che ho sognato, quello che ho pensato, quello che si è dimenticato in me stesso: tutto questo, in un amalgama di ombre, di finzioni e di rimorsi, si mescola nell’orbita in cui girano i mondi e cade fra le cose della vita come lo scheletro di un grappolo d’uva, mangiato all’angolo della strada dai monelli che lo hanno rubato.

Il rumore del giorno umano aumenta all’improvviso, come il suono di un campanello che chiama. Schiocca dentro la casa la serratura soave della prima porta che si apre verso l’universo. Sento un rumore di ciabatte in un corridoio assurdo che conduce al mio cuore. E in un gesto brusco, come chi finalmente si uccide, sollevo dal mio corpo duro le coltri profonde che mi riparano. Mi sono svegliato. Il rumore della pioggia si fa più sfumato in altezza, nell’indefinito fuori. Mi sento più felice. Ho eseguito qualcosa che ignoro. Mi alzo, vado alla finestra, apro le imposte con una decisione di grande coraggio. Riluce un giorno di pioggia chiara che mi sommerge gli occhi di luce opaca. Apre anche i vetri della finestra. L’aria fresca mi inumidisce la pelle calda. Piove, sì, ma anche se tutto è identico, tutto è in fondo così di meno !  Voglio rinfrescarmi, vivere, e piego il collo alla vita come ad un giogo immenso.

“A poco a poco mi perdo
fine ad essere vivo”.

E galleggio sul mare dell’inquietudine
che ha da tempo ricoperto la mia coscienza,
 in attesa di una carezza anonima
che mi raccolga
lasciandomi asciugare
nel palmo della sua mano.


Da “Il libro dell’Inquietudine”[92]

Dicono che il tedio è la malattia degli oziosi, o che attacca solo coloro che non hanno nulla da fare. Eppure questo malessere dell’anima è più sottile: più che i veri oziosi attacca coloro che hanno disposizione per essa e coloro che lavorano, o che fingono di lavorare( che nella fattispecie è lo stesso).

Non c’è nulla di peggio del contrasto fra lo splendore naturale della vita interiore, con le sue Indie naturali e i suoi paesi sconosciuti, e la sordidezza, anche se in realtà non è sordida, della quotidianità della vita. Il tedio pesa di più quando non ha la scusa dell’ozio. Il tedio dei grandi indaffarati è il peggiore di tutti.

Il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia maggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c’è da fare, tanto più tedio bisogna sentire.

Quante volte sollevo la testa vuota del mondo intero dal registro sul quale sto scrivendo! Sarebbe meglio per me oziare, non fare nulla, senza aver nulla da fare, perché così assaporerei quel tedio, anche se reale. Nel mio tedio presente che non c’è quiete né nobiltà, né il benessere del malessere: c’è un enorme annullamento di ogni gesto compiuto, e non una stanchezza virtuale dei gesti che non compirò.

La nostra vita interiore
è fatta di molti paesaggi,
di isole e di terre ferme.

Talvolta approdiamo
in luoghi sconosciuti,
talvolta ci affacciamo
sull’anima e scopriamo
nuovi rivoli,
talvolta il nulla.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [95]

Esistono in città certe tranquillità di campagna. Ci sono dei momenti, soprattutto nei mezzogiorni d’estate, in questa Lisbona luminosa, in cui la campagna, come un vento ci invade. E proprio qui, in Rua dos Douradores, godiamo di un sonno tranquillo.

Quanto è bello per l’animo osservare sotto un tranquillo sole alto, il silenzio, di questi barrocci di paglia, di queste cassette da riempire, questi passanti lenti di villaggio dislocato ! E anch’io mentre guardo affacciato alla finestra di quest’ufficio nel quale sono da solo mi disloco: mi trovo in una calma cittadina di provincia, in un villaggio sconosciuto, e sono felice perché mi sento un altro.

Lo so: se alzo gli occhi ho davanti a me la lunga facciata lurida del caseggiato, le finestre da lavare di tutti gli uffici della Baixa, le finestre insensate degli ultimi piani nei quali abitano degli inquilini; e, sopra di essi, nello spiovente delle mansarde, i panni di sempre al sole fra vasi e piante. Lo so, ma così soave è la luce che indora tutto questo, così insensata l’aria calma che mi circonda, che io non ho neppure motivi visuali per rinunciare al mio villaggio posticcio, alla mia cittadina di provincia dove il commercio è una pace.
Lo so, lo so…E’ vero che è l’ora di pranzo, o del riposo, o dell’intervallo. Tutto va bene alla superfice della vita. Anch’io dormo, anche se sono affacciato al balcone come se fosse il parapetto di una nave su un paesaggio inedito. E non mi tormento, come se fossi in provincia. Ed ecco, improvvisa, una cosa nuova che mi avvolge, mi comanda: oltre il meriggio della cittadina, in ogni cosa della cittadina, vedo la vita intera; vedo la grande felicità stupida della vita domestica, la grande felicità stupenda della vita nei campi, la grande felicità stupida della pace nella nullità. Lo vedo perché lo vedo. Ma non ho visto, e mi sveglio. Mi guardo intorno sorridendo, e prima di tutto tolgo dalle maniche del vestito (purtroppo scuro) la polvere del davanzale che nessuno ha pulito, perché non sapevano che un giorno questo davanzale sarebbe stato, anche se solo per un attimo, il parapetto senza polvere possibile di una nave che viaggiava per una crociera infinita.

Nessuno si aspetta mai
che il proprio cuore
possa ricominciare a viaggiare,
come nave
“per una crociera infinita”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [101]

E’ un’irrimediabile oleografia. La guardo senza sapere se la vedo. In vetrina, oltre a quella, ce ne sono altre. Si trova al centro della vetrina nascondendomi il vano delle scale.

La figura stringe al seno la primavera e mi guarda con gli occhi tristi. Sorride con la lucidità della carta e ha le guance vermiglie. Il cielo dietro di le ha l’azzurro chiaro di un tessuto. Ha una bocca disegnata e piuttosto piccola, sopra il cui atteggiamento da cartolina gli occhi mi fissano sempre con una grande tristezza. Il braccio che sorregge i fiori mi ricorda quello di qualcuno. Il vestito, o la blusa, è aperto in una scollatura bordata. Gli occhi son proprio tristi: mi fissano dal fondo della realtà litografica con una certa verità. E’ arrivata con la primavera. I suoi occhi tristi sono grandi ma non è per questo motivo che sono tristi. Mi allontano dalla vetrina con un grande scatto dei piedi. Attraverso la strada e mi volto con una ribellione impotente. Lei sorregge ancora la primavera che le hanno dato e si suoi occhi sono tristi come le cose che mancano nella mia vita. Guardandola da lontano, l’oleografia sembra più colorita. La figura ha un nastro di colore rosa che contorna la cima dei capelli: non me ne ero accorto. Negli occhi umani, anche se litografici, c’è qualcosa di terribile: l’inevitabile avviso della coscienza, il grido clandestino dell’esistenza. Con un grande sforzo mi sollevo dal sonno nel quale sono immerso e come un cane scuoto via l’umidità della tenebra di bruma. E sopra il mio risveglio, nel commiato da un’altra cosa, gli occhi tristi della vita intera, di questa oleografia metafisica che contempliamo a distanza, mi fissano come se io sapessi di Dio. L’illustrazione ha un calendario alla base. E’ incorniciata in alto e in basso da due listarelle nere leggermente convesse e dipinte male. Da una parte all’altra della sua compiutezza, sopra il 1929 con una vignetta calligraficamente obsoleta che copre l’inevitabile primo di gennaio, gli occhi tristi mi sorridono ironicamente.

E’ curioso dove avevo già visto quella figura. Nella parete di fondo dell’ufficio c’è un calendario identico che ho visto tante volte. Ma, a causa di un mistero che è mio o che è dell’oleografia, quella figura identica dell’ufficio non ha tristezza negli occhi. E’ soltanto un’oleografia: è di una carta lustra che, sopra la testa di Alves il mancino, dorme la sua vita sbiadita.

Vorrei sorridere di tutto questo, ma provo un grande malessere. Sento un freddo di improvvisa malattia nell’anima. Non ho la forza di ribellarmi a questa assurdità. A quale finestra e su quale segreto di Dio mi sto affacciando senza volerlo ? Su che cosa guarda la vetrina del vano delle scale ? Quali occhi mi fissavano nell’oleografia ? Sto quasi tremando. Alzo involontariamente gli occhi in direzione della lontana parete dell’ufficio dove è appesa la vera oleografia. Alzo costantemente gli occhi verso quel punto.


Mentre pensavo di me,
all’improvviso hai pronunciato
le parole magiche per l’anima.

E’ stato un attimo,
e mi sono rivisto:
non so più dire
che cosa sarò
ora che una luce
forse ti copre
e ti confonde:
“a quale finestra
e su quale segreto di Dio
mi sono affacciato ?”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [103]

Rileggo passivamente le semplici frasi di Caeiro, la relazione così naturale sulla piccola dimensione del suo villaggio, ricevendo la lettura come una ispirazione ed una liberazione.
Dice Caeiro che da quel villaggio,a causa della sua piccola dimensione, si può vedere una maggior parte del mondo che non dalla città; e per questo il villaggio è più grande della città…“Perché io ho la dimensione di ciò che vedo, e non la dimensione della mia altezza.”.

Frasi come queste, che sembrano crescere senza essere state dette dalla volontà, mi disintossicano dalla metafisica che inconsapevolmente aggiungo alla vita. Dopo averle lette, raggiungo la mia finestra sulla strada stretta, guardo il vasto cielo e gli innumerevoli astri, e sono libero come uno splendore alato che sento vibrare in tutto il corpo.

“Io ho la dimensione di ciò che vedo!” Se penso a questa frase con grande concentrazione, essa mi sembra destinata a rigenerare le costellazioni dell’universo.
“Io ho la dimensione di ciò che vedo!” Quale grande signoria mentale dal pozzo delle emozioni profonde raggiunge le stelle che in esso si riflettono e che dunque in un certo senso vi sono contenute.

E a questo punto, consapevole di saper vedere, guardo la vasta metafisica obiettiva di tutti i cieli con una sicurezza che mi fa venir voglia di morire cantando.

“Io ho la dimensione di ciò che vedo!” E il vago chiarore lunare, completamente mio, comincia a corrompere di incertezza il blu seminero dell’orizzonte.

Ho voglia di alzare le braccia e di gridare cose di ignota selvatichezza, di parlare ai misteri sublimi, di affermare una nuova vasta personalità ai grandi spazi della materia vuota.

Ma mi controllo e mi rassereno.

“Io ho la dimensione di ciò che vedo!” E la frase diventa la mia intera anima, vi accosto tutte le emozioni che sento e sopra di me, ma di dentro, come sulla città dal di fuori, cala la pace indecifrabile della fredda luce della luna che comincia a risplendere, vasta, con il cadere della notte.


E’ incontrando te
che capisco che posso
ancora attingere al pozzo
delle emozioni e catturare
tutte le stelle
che in esso si riflettono.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [111]

Quanto più alta è la sensibilità, e più sottile la capacità di sentire, tanto più assurdamente essa vibra e freme per le piccole cose. E' necessaria una prodigiosa intelligenza per provare angustia per una giornata buia. L'umanità, che è poco sensibile, non prova angustia a causa del tempo, perché fa sempre tempo; non sente la pioggia se non quando essa cade addosso.

La giornata è opaca e molle di un caldo umido. Solitario, in ufficio, passo in rassegna la mia vita e quello che vedo in essa è come la giornata che mi opprime e mi affligge. Mi rivedo bambino contento per un nulla, adolescente che anelava a tutto, uomo senza gioia e senza speranza. E tutto questo è successo nella mollezza e nella opacità, come la giornata che me lo fa vedere e ricordare.

Chi di noi può dire, voltandosi indietro, sulla strada che non ha ritorno, che l’ha seguita come doveva ?

Quando passo dall’aspetto
all’ascolto della tua anima, o musa
mi accorgo che la tua bellezza
altro non è che la cima di un monte
le cui falde affondano dentro di me:
“Quanto più alta è la sensibilità
e più sottile la capacità di sentire,
tanto più assurdamente essa vibra
e freme per le piccole cose”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [114]

Ci sono momenti in cui tutto ci stanca, perfino ciò che potrebbe riposarci; quello che ci stanca perché ci stanca; quello che potrebbe riposarci perché l’idea di ottenerlo ci stanca. Esistono certe prostrazioni dell’animo al di sotto di qualsiasi angoscia e di qualsiasi dolore; ed essi sono ignoti solo a coloro che evitano le angosce e gli umani dolori e vengono a patti con se stessi per sfuggire al proprio tedio. Non stupisce che, riuscendo a costruirsi una corazza contro il mondo, ad un certo punto della loro consapevolezza di se stessi a costoro pesi l’intera mole della corazza, e la vita diventi per loro un’angoscia alla rovescia, un dolore perduto.

Mi trovo in un momento così, e scrivo queste righe come colui che pretende almeno di rendersi conto di vivere. Fino a un momento fa, ho lavorato tutto il giorno in un modo sonnolento redigendo la mia contabilità attraverso procedimenti di sogno, scrivendo sulle righe del mio torpore. Per tutta la giornata ho sentito la vita pesarmi sugli occhi e sulle tempie: sonnolenza sulle palpebre, pesantezza sulle tempie, sullo stomaco la consapevolezza di tutto questo, nausea e sconforto.

Vivere mi sembra un errore metafisico, una negligenza dell'inazione. Non bado neppure al giorno per cercarvi qualche cosa che mi possa distrarre da me stesso e perché io, descrivendolo qui con la scrittura, possa chiudere con parole il calice vuoto del mio non-volermi. Non bado neppure al giorno, e ignoro, con le spalle curve, se è sole o mancanza di sole ciò che c’è nella strada soggettivamente triste, nella strada deserta dove sta passando il rumore della gente. Ignoro tutto e il cuore mi fa male. Ho smesso di lavorare e non voglio muovermi da qui. Sto guardando la carta assorbente di un bianco sporco fissata agli angoli che si spande sulla grande età della scrivania inclinata. Fisso attentamente gli scarabocchi di assorbimento e distrazione che vi sono impressi. Ripetute volte la mia firma alla rovescia e all’incontrario. Qualche numero qua e là, proprio così. Dei disegni insignificanti; fatti dalla mia distrazione. Guardo tutto questo come un bifolco delle carte assorbenti, con l’attenzione di chi osserva una novità, con tutto il cervello inerte dietro ai centri cerebrali che comandano la vista.

Ho un intimo sonno, più di quello che posso contenere. E non voglio nulla, non preferisco nulla, non c’è nulla a cui sfuggire.

Sto scrivendo i miei sogni
sulle righe di un quaderno
che sta per finire.

Non riuscirò a sfuggire
all’errore di vivere
ne all’intimo morire.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [116]

Da molto, non so se da giorni o se da mesi, non registro alcuna impressione; non penso, dunque non esisto.
Ho dimenticato chi sono; non so scrivere perché non so essere. Attraverso una obliqua sonnolenza sono stato un altro. Sapere che non ricordo è svegliarmi.

Sono svenuto durante un brano della mia vita. Ritorno in me stesso senza memoria di ciò che sono stato e la memoria di ciò che fui soffre di essere stata interrotta. C’è in me una nozione confusa di un intervallo incognito, uno sforzo futile di una parte della memoria nel voler trovare l’altra parte. Non riesco a riallacciarmi. Se ho vissuto, mi sono dimenticato di saperlo.

Non è questa prima giornata di avvertibile autunno (la prima giornata di freddo non fresco che veste l’estate morta di minore luce) che mi dà, in una trasparenza straniata, una sensazione di proposito morto o di falsa volontà. Eppure non c’è, in questo interludio di cose perdute, una traccia incerta di memoria inutile. E’, più dolorosamente, un tedio di stare rammentando ciò che non si ricorda, uno scoraggiamento di ciò che la coscienza ha perso fra alghe e giunchi, in riva a non so che cosa.

Vedo che la giornata, limpida e immobile, ha un cielo positivo, di un azzurro meno chiaro dell’azzurro profondo. Vedo che il sole, leggermente meno dorato di prima, infiamma di riflessi umidi i muri e le finestre. Mi rendo conto che, nonostante non ci sia vento, o brezza che lo ricordi e lo neghi, nella città indefinita dorme tuttavia una frescura sveglia. Mi rendo conto di tutto ciò, senza pensare o volere, e non ho sonno se non come ricordo, e non ho nostalgia se non come inquietudine.

Sono in convalescenza, sterile e lontano, dalla malattia che non ho avuto. Mi predispongo, agile per il risveglio, a ciò che non oso. Quale sonno non mi ha lasciato dormire ? Quale carezza non ha voluto parlarmi ? Che bello essere un altro con questo sorso freddo di primavera forte! Che bello poter almeno immaginare di esserlo; è meglio della vita; mentre in lontananza, nell’immagine ricordata, i giunchi si inclinano glauchi sul fiume senza che si avverta il vento.

Quante volte, rimembrando chi non sono stato, mi penso giovane e dimentico ! Ed erano altri i paesaggi che non ho mai visto; erano nuovi senza essere esistiti i paesaggi che ho veramente visto. Che me ne importa ? Mi sono spento in fatalità e interstizi, e mentre il fresco della giornata è proprio quello del sole, i giunchi scuri del fiume dormono freddi al tramonto che vedo senza che esista.

Sto scrivendo i brani
della mia vita,
 ricordando chi
non sono stato,
pensando a paesaggi
che non ho mai visto,
vibrando lacrime
davanti ad un tramonto che vedo,
ma che non esiste.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [119]

Che io porti almeno verso la possibile immensità dell’abisso di tutta la gloria della mia delusione come se fosse la gloria di un grande sogno, e lo splendore del non credere come una bandiera trascinata nel fango e nel sangue dei deboli – ma innalzata quando spariremo fra le sabbie mobili, nessuno sa se per protesta, se per sfida, se per gesto di disperazione… Nessuno lo sa perché nessuno sa niente, e le sabbie inghiottiscono coloro che hanno bandiere come coloro che non ce l’hanno.

E le sabbie coprono tutto: la mia vita, la mia prosa, la mia eternità.

Porto con me la consapevolezza della disfatta come una bandiera vittoriosa.

Un giorno la terra
coprirà tutto:
la mia vita,
la mia poesia,
la mia eternità
e con essa l’abisso
della delusione
che ogni grande sogno
porta con se.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [120-121]

Le grandi angosce dell'animo sono sempre dei cataclismi. Quando si verificano il sole s'inganna e le stelle si turbano. Per ogni anima sensibile arriva sempre il giorno in cui il Destino dipinge un’apocalisse di angoscia: come se i cieli e l’universo si rovesciassero sul nostro sconforto.

Sentirsi superiore e vedersi trattato dal Destino come il più infimo degli infimi: nessuno, in questa situazione, può dirsi fiero di essere uomo.

Se un giorno la mia capacità espressiva diventasse così vasta da ospitare tutta l'arte, scriverei un'apoteosi del sonno. Non conosco maggiore piacere del sonno, la cancellazione totale della vita e dell’anima, il commiato dall’essere e dagli uomini, la notte senza memoria e senza illusione, la mancanza di passato e di futuro.

Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell'emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l'anima.

Allora tutte le idee che hanno fatto pulsare sulla nostra vita, i progetti, le ambizioni su cui abbiamo fondato la speranza del futuro, si strappano come se il vento le investisse, si aprono come se fossero nuvole, si dileguano come ceneri di nebbia, stracci di ciò che non fu e che non potrebbe essere stato. E dentro la disfatta sorge, pura, la solitudine nera e implacabile del cielo deserto e stellato. Il mistero della vita ci addolora e ci spaventa con tutti i suoi volti. A volte piomba su di noi come un fantasma senza forma, e l’anima si raggela per lo spavento più terribile: la paura dell’incarnazione mostruosa del non - essere. Altre volte esso sta alle nostre spalle, mostrandosi soltanto quando non voltiamo la testa per guardarlo, ed è la verità tutta intera nel suo profondissimo orrore di non riconoscerla. Ma questo orrore che oggi mi annichilisce è meno nobile, è più corrosivo. E’ il desiderio di non voler pensare, è il desiderio di non essere mai stato nulla, è nella disperazione consapevole di tutte le cellule del tessuto dell’anima. E’ la sensazione improvvisa di essere imprigionato in una cella infinita. Dove si può pensare di fuggire, se la sola cella è tutto? E allora ho un desiderio dilagante e assurdo come un satanismo precedente a satana: che un giorno, un giorno privo di tempo e di sostanza, sia possibile evadere da dio, e che, in una forma ignota, il più profondo di noi appartenga più all’essere o al non essere.

Aspiro ad una notte
senza memorie
e senza illusione,
senza passato
e senza futuro.
Una notte in cui
il Destino dipinga
la sua apocalisse
 e strappi come vento
la nostra vita, facendone
“stracci di ciò che non fu
 e che non potrebbe essere stato”.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [122]

Nessuno ha ancora definitocon linguaggio attraverso il quale lo potesse capire chi non lo ha provato, che cosa sia il tedio. Ciò che alcuni chiamano tedio non è altro che la noia; per altri non è altro che il malessere; ci sono altri, infine, che chiamano tedio la stanchezza. Ma il tediosebbene partecipi della stanchezza e del malessere e della noia, partecipa di essi come l'acqua partecipa dell'idrogeno e dell'ossigeno, dei quali si compone e i quali include, senza che ad essi assomigli.

Se dunque alcuni danno al tedio un senso ristretto e incompleto, altri gli prestano un significato che in certo modo lo trascende, come allorché viene chiamata tedio la nausea intima e spirituale della varietà e dell’incertezza del mondo. Ciò che fa sbadigliare (cioè la noia); ciò che fa cambiare posizione (cioè il malessere); ciò che costringe all’immobilità (cioè la stanchezza): niente di tutto questo è il tedio; ma non lo è neppure il senso profondo della vacuità delle cose, attraverso il quale le aspirazioni frustrate si liberano, le ansie disilluse lievitano e si forma nell’anima il seme da cui nasce il mistico o il santo.
Il tedio è, piuttosto, la noia del mondo, il male di vivere, la stanchezza di aver vissuto; il tedio è, veramente, la sensazione carnale della vacuità prolissa delle cose.
Ma il tedio è, più che questo, la noia di altri mondi, che esistano o meno; il male di dover vivere, sebbene "altro", sebbene in altro modo, sebbene in altro mondo; la stanchezza non solo dell'ieri e dell'oggi, ma anche del domani, dell'eternità, se essa esiste, del nulla, se esso è l'eternità. Né è solo la vacuità delle cose e degli esseri che duole nell'anima quando essa è in tedio: è anche la vacuità di un qualcos'altro diverso dalle cose e dagli esseri, la vacuità della stessa anima che sente il vuoto, che sente di essere il vuoto, e che in esso di se stessa si nausea e si ripudia.

II tedio è la sensazione fisica del caos, che il caos sia tutto. Colui che è stanco, che ha malessere, che è annoiato, si sente prigioniero in un'angusta cella. Colui che è disgustato dalla strettezza della vita si sente ammanettato in una grande cella. Ma colui che ha tedio si sente prigioniero in libertà in una cella infinita. Sopra colui che si annoia o ha malessere, o è affaticato, possono crollare i muri della cella e sotterrarlo. A colui che si affligge della piccolezza del mondo possono cadere le manette, ed egli può fuggire; o addolorandosi senza potersele togliere, egli, sentendo il dolore, può riviversi senza pena. Ma i muri della cella infinita non possono sotterrarci, perché non esistono; ne può provarci che siamo vivi il dolore di manette che nessuno ci ha messo ai polsi.

Ed è questo che io sento davanti alla bellezza placida di questa sera che imperescibilmente muore. Guardo il cielo alto e chiaro, dove cose vaghe, rosee, come ombre di nuvole, sona una peluria impalpabile di una vita alata e remota. Abbasso lo sguardo sul fiume dove l'acqua, appena leggermente increspata, è di un azzurro che pare specchiato in un cielo più profondo. Alzo di nuovo gli occhi al cielo, e c'è già, fra i vaghi colori che si sfilacciano, senza stracciarsi, nell'aria diafana, un tono algido di bianco opaco, come se anche qualcosa delle cose, là dove esse sono più alte e incorporee, avesse un proprio tedio materiale, una impossibilita di essere ciò che è, un corpo imponderabile di angustia e desolazione.

Ma che cosa? Che cosa c'e nell'aria alta se non l'aria alta, che non è niente? Che c'e nel cielo se non un colore che non e suo? Che cosa c'è in quegli stracci men che nuvole, di cui pur dubito, se non l'incisione di riflessi di luce di un sole già tramontato? Che cosa c'è in tutto questo se non io? Ah, ma il tedio è questo, è solo questo. In tutto questo - cielo, terra, mondo - ciò che c'è in tutto questo non è se non io!"

Di sera passeggio dentro di me,
avanti e indietro,
 alla ricerca di un punto di equilibrio
tra la bellezza della sera che muore
e l’azzurro specchiato del fiume,
tra un cielo di vaghi colori
e la dura terra dove io vivo.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [126]

I classificatori di cose, che sono quegli uomini di scienza la cui scienza consiste solo nel classificare, ignorano in generale che il classificabile è infinito e che dunque non si può classificare. Ma ancora di più mi stupisce che costoro ignorino l'esistenza di classificabili incogniti, cose dell'anima e della coscienza che abitano negli interstizi della conoscenza. Forse perché io penso troppo o sogno troppo, non distinguo fra la realtà esistente e il sogno, che è la realtà inesistente. E così intercalo nelle mie riflessioni sul cielo e sulla terra cose che non brillano di luce solare e che non si calpestano con i piedi: le meraviglie fluide dell'immaginazione. M'indoro di tramonti ipotetici, ma l'ipotetico è vivo nella supposizione. Mi rallegro di brezze immaginarie, ma l'immaginario vive quando lo si immagina. Ho un'anima per varie ipotesi, ma quelle ipotesi hanno un'anima loro e perciò mi offrono l'anima che hanno. Non c'è altro problema se non quello della realtà, e questo problema è insolubile e vivo. Che so io della differenza fra un albero e un sogno? Posso toccare l'albero; so di avere il sogno. Cos'è questo nella sua verità? Cos'è questo? Sono io che da solo nell'ufficio deserto posso vivere immaginando senza detrimento per l'intelligenza. Il mio pensiero non subisce interruzioni a causa delle scrivanie abbandonate e della sezione di rimesse con fogli di carta e rotoli di spago. Non mi trovo sul mio panchetto alto ma, per una promozione a venire, sono reclinato sulla poltroncina coi braccioli rotondi di Moreira. Forse è l'influenza del luogo a rendermi distratto. Le giornate di grande caldo provocano sonno; dormo senza dormire per mancanza di energia. E per questo penso in questo modo.

Ho il fluido
che si chiama immaginazione:
con esso mi staglio
in tramonti rossastri
e mi affaccio
in brezze immaginarie.

Prendo l’anima
di qualsiasi sogno,
 tranne quello della vita,
sogno insolubile.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [127]

Il silenzio che scaturisce dal rumore della pioggia si diffonde in un crescendo di grigia monotonia lungo la strada stretta che io fisso.  Sto dormendo da sveglio, in piedi contro il vetro al quale mi appoggio come se fosse tutto.
Cerco di sapere da me stesso quali sensazioni sono mai queste che provo davanti ai fili di pioggia cupamente luminosa che si staglia contro le facciate sporche e ancora di più contro le finestre aperte.
E non so quello che sento, non so quello che voglio sentire, non so quello che penso ne quello che sono.

Tutta l'amarezza ritardata della mia vita si spoglia dell'abito di allegria naturale che indossa nelle occasioni prolungate di ogni giorno. Constato che, spesso allegro o spesso contento, sono sempre triste. E ciò che in me per questa constatazione è dietro di me, è come si affacciasse sul mio stare appoggiato alla finestra; e guarda da sopra le mie spalle e da sopra la mia testa, con occhi più intimi dei miei, al pioggia lenta, ormai un po’ ondeggiante, che cesella, in filigrana, l’aria cinerea e maligna.

Abbandonare ogni dovereperfino quelli che non ci sono richiesti, ripudiare ogni focolare,perfino quelli che non sono stati nostri, vivere di vaghezza e di residui fra grandi porpore di follia, e trine false di maestà sognate… Essere qualcosa che non senta il cruccio della pioggia esterna o la pena della vacuità intima…Errare senz’anima né pensiero, sensazione priva di se stessa, per una strada che contorna montagne, per valli nascoste fra scarpate scoscese, lontano, affondato e fatale…Perdersi fra paesaggi come quadri. Non essere fatto di lontananza e colori…

Un soffio leggero di ventoche dietro la finestra non sento, lacera in dislivelli aerei la caduta rettilinea della pioggia. Si schiarisce una parte del cielo che non vedo. Lo noto perché dietro ai vetri quasi puliti della finestra dirimpetto vedo già vagamente, dentro, il calendario sulla parete che fino ad ora non vedevo.

Dimentico. Non vedo. Non penso.

Cessa la pioggia e di essa rimane, per un attimo, un pulviscolo di minuscoli diamanti come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia aperta venisse scossa dalle briciole. Si sente che una parte del cielo è già azzurra. Attraverso la finestra dirimpetto si vede il calendario più nitidamente. C’è un viso di donna, e il resto è facile perché lo riconosco, è il dentifricio più conosciuto.

Ma a che cosa pensavo prima di perdermi a vedere ? Non lo so. Voglia ? Sforzo ? Vita ? Con una grande avanzata di luce si sente che il cielo è già quasi tutto azzurro. Ma non c’è quiete (ah, e non ce ne sarà mai) in fondo al mio cuore, vecchio pozzo al limitare del podere di campagna venduto, memoria di infanzia coperta di polvere nella soffitta della casa altrui. Non c’è quiete: e, ahimè, manca anche il desiderio di averla…

Non c’è più quiete
in fondo al mio cuore.

Non c’è più acqua
da attingere con un secchio
coperto di polvere.

Vedo il tuo volto
in una pioggia
di minuscoli diamanti
e dimentico
non vedendo.
Ed amo,
pur non pensando.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [128]

Il tramonto si diffonde sulle nuvole disseminate lungo l’intero orizzonte. Riflessi di ogni colore, riflessi soavi, riempiono i contrasti dell’aria alta, galleggiano assenti nelle grandi inquietudini dell’altezza. Sopra i tetti aguzzi, per metà illuminati e per metà in ombra, gli ultimi raggi lenti del sole declinante assumono colori che non appartengono al colore né alle cose che colorano. Scende una grande quiete sulla superfice rumorosa della città che sta scivolando nel silenzio. Oltre il rumore ed il colore, tutto respira con un sorso profondo e muto.

Sulle case colorate che il sole non tocca, i colori cominciano ad acquisire toni di grigio. C'è del freddo nelle diversità di quei colori. Una piccola inquietudine dorme nelle false vallate delle strade. Dorme e riposa. E a poco a poco, sopra le nuvole più basse, i riflessi cominciano a farsi ombra; soltanto su quella piccola nuvola, che plana come un’aquila candida sopra ogni cosa, il sole conserva, da lontano, il suo oro sorridente.

Tutto quanto ho cercato nella vita, io stesso l'ho lasciato proprio perché lo cercavo. Sono come qualcuno che cerchi distrattamente ciò che, in sogno, cercando, abbia già dimenticato. Più reale della cosa assente cercata, è il gesto presente delle mani visibili che cercano, frugando, spostando, ordinando; mani che esistano bianche e lunghe, ciascuna con cinque dita, esattamente. Tutto quello che ho avuto è come questo cielo alto e diversamente medesimo, brandelli di nulla toccati da una luce distante, frammenti di falsa vita che la morte indora da lontano, con il suo sorriso triste di verità totale. Tutto quello che ho avuto, sì, è stato il non aver saputo cercare: signore feudale di paludi notturne, principe deserto di una città di tumuli vuoti.

Tutto quanto sono, o quanto sono stato, quanto penso di ciò che sono o sono stato: tutto perde all'improvviso, in questi miei pensieri e nella subitanea mancanza della luce della nuvola alta, il segreto, la verità, forse la ventura che potrebbero esserci in un qualcosa che sta sotto la vitaTutto questo, come un sole che manca, è ciò che mi resta; e sui tetti alti, diversamente, la luce lascia scivolare le sue mani di cascata ed emerge allo scoperto, nell'uniformità dei tetti, l'ombra intima di ogni cosa.

Come una vaga goccia tremolante, biancheggia in lontananza la prima piccola stella.

Della mia vita posseggo
solo brandelli di nulla,
toccati da una luce distante.

Frammenti di inquietudine
che si svegliano quando
sono toccati dal sorriso
triste della morte.
.
Tutto ciò che abbiamo
è forse il risultato di ciò
che non abbiamo saputo trovare ?
Mi accorgo di qualcosa
che ho sotto la vita,
quando appari qual prima stella,
goccia bianca e tremolante,
nel mio cielo.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [130]

Quando riesco a concludere qualcosa provo sempre stupore. Stupore e afflizione. Il mio istinto di perfezionismo dovrebbe inibirmi dal concludere; dovrebbe inibirmi perfino di cominciare. Ma mi distraggo e lavoro. Ciò che ottengo è il prodotto non di un’applicazione della volontà, ma di un suo cedimento. Comincio perché non ho la forza per pensare; concludo perché non ho coraggio di fermarmi. Questo libro è la mia codardia.
Il motivo per cui tante volte interrompo un pensiero con un brano di paesaggio che in qualche modo si inserisce nello schema, reale o ipotetico, delle mie impressioni, è che quel paesaggio è una porta attraverso la quale sfuggo alla conoscenza della mia impotenza creatrice. Sento la necessità, fra le conversazioni con me stesso che formano le parole di questo libro, di parlare all’improvviso con qualcun altro, e mi rivolgo alla luce che, come in questo momento, si libra sui tetti delle case che sembrano bagnati perché sono illuminati obliquamente; allo stormire blando degli alberi alti sui colli della città, che sembrano vicini, in una possibilità di crollo muto; ai manifesti sovrapposti delle case ripide, con finestre come lettere dove il sole morto fa ingiallire la colla umida.
Perché scrivo, se non scrivo meglio? Ma cosa ne sarebbe di me se non scrivessi ciò che riesco a scrivere per quanto nello scrivere io sia inferiore a me stesso? Sono un plebeo dell’aspirazione perché cerco di realizzare; non oso il silenzio, come chi teme una stanza buia. Sono come coloro che apprezzano più la medaglia che la fatica, e assaporano la gloria attraverso la pelliccia di ermellino.
Per me scrivere è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come una droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima; erbe colte nei canti delle rovine dei sogni, papaveri neri trovati vicino alle tombe, lunghe foglie di alberi osceni che agitano i loro rami sulle rive sentite dei fiumi infernali dell’anima.
Si, scrivere significa perdermi, ma tutti si perdono, perché tutto è perdita. Però io mi perdo senza allegria, non come il fiume nella foce alla quale nacque ignaro, ma come la pozzanghera creata sulla spiaggia dall’alta marea, e la cui acqua, inghiottita dalla sabbia, non tornerà più al mare.


Lungo il fiume
che scorre forte
nella mia anima,
vi sono degli alberi
che ondeggiano quando
incrocio il tuo sguardo
e “mi perdo senza allegria
non come il fiume nella foce
 alla quale nacque ignaro,
ma come la pozzanghera
creata sulla spiaggia
dall’alta marea
e la cui acqua inghiottita
dalla sabbia,
non tornerà più al mare”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [132]

Sono passato come uno straniero in mezzo a loro, ma nessuno ha capito che lo ero. Sono vissuto come una spia in mezzo a loro e nessuno, nemmeno io, ho sospettato che io lo fossi. Tutti mi credevano un parente: nessuno sapeva che ero stato scambiato alla nascita. Cosi sono stato uguale agli altri senza somigliare a loro, fratello di tutti senza appartenere alla famiglia. Venivo da terre prodigiose, da paesaggi più belli della vita, ma non ho mai parlato di quelle terre se non a me stesso. E di quei paesaggi visti in sogno non ho mai dato notizia a nessuno. I miei passi erano uguali ai passi altrui, sugli impiantiti o sui lastricati, ma il mio cuore era lontano, anche se batteva vicino, signore falso di un corpo esiliato ed estraneo. Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera, perché nessuno sapeva che a questo mondo esistono i mascherati. Nessuno ha supposto che a mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. Nelle loro case ho trovato riparo, le loro mani hanno stretto la mia, mi hanno visto passare per la strada come se fossi io; ma colui che io sono non è mai stato in quelle stanze, colui che io vivo non ha mani che altri possano stringere, colui che conosco quale io non ha strade da percorrere, se non tutte le strade, non ha qualcuno che in esse lo veda, a meno che egli stesso non sia tutti gli altri. Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; ma per altri essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.


Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che pensiamo o sentiamo è sempre una traduzione, che ciò che vogliamo e ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?
Ma la maschera che finora ho fissato con inerzia, quella maschera che parlava all’angolo della strada con un uomo senza maschera in questa notte di fine carnevale, ha finalmente teso la mano e ha salutato ridendo. L’uomo naturale ha girato l’angolo e ha imboccato la traversa di sinistra. La maschera (un domino senz’allegria) è andata nell’altra direzione, allontanandosi fra ombre e luci fortuite, in un commiato definitivo ed estraneo a ciò che io stavo pensando. Solo allora mi sono accorto che oltre ai lampioni c’era qualcos’altro nella strada: un chiarore di luna che si andava offuscando, vago, occulto, muto, pieno di nulla come la vita…



Provengo dai paesaggi
più belli della mia vita
ma il cuore, seppur  battente con essi
è molto lontano.

Mi sento smarrito
nella mia anima
e cerco un chiarore
di luna piena di nulla,
come la vita.

Da “Il libro dell’Inquietudine” [138]

Fluido, l’abbandono della giornata termina fra porpore esauste. Nessuno mi dirà chi sono né saprà chi sono stato. Sono sceso dalla montagna ignorata alla valle che ignorerò, e i miei passi sono stati, nella sera lenta, orme lasciate nelle radure della foresta. Tutti coloro che amai mi hanno dimenticato nell’ombra. Nessuno ha saputo dell’ultimo battello. Alla posta non c’era notizia della lettera che nessuno avrebbe scritto.

Tutto, però, era falso. Non hanno raccontato storie che altri avrebbero raccontato, né si sa di sicuro di colui che partì tempo addietro, nella speranza dell’imbarco falso, figlio della bruma futura e dell’indecisione a venire. Ho un nome fra coloro che tardano, e quel nome è ombra come tutto.

Dopo di te, “nessuno mi dirà
chi sono né saprò
chi sono stato”.

Ho amato nell’ombra
ed a nessuno ho detto
dell’ultimo battello
né dell’ultima mia lettera.
Ho lasciato a te
il mio nome e
“quel nome è ombra
                                                                           come tutto”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [140]

Ho assistito in incognito all’accasciamento graduale della mia vita, al lento naufragio di tutto quanto ho voluto essere. Posso dire, con quella verità la cui morte è palese anche senza corone di fiori, che tutto quanto ho voluto e nel quale ho riposto, anche se per un momento, nient’altro che il sogno di quel momento, tutto mi si è sfracellato sotto le finestre come una zolla caduta da un vaso dagli ultimi piani. Sembra perfino che il Destino abbia sempre cercato di farmi amare o di farmi volere quanto esso aveva stabilito, affinché il giorno dopo io constatassi l’impossibilità di quel desiderio.

Ironico spettatore di me stesso, non ho però mai disertato lo spettacolo della vita. E oggi, da quando sono consapevole, sull'anticipo di ogni vaga speranza, che ogni speranza sarà frustrata, oggi soffro lo speciale piacere di assaporare subito la delusione con la speranza, come un amaro con il dolce che rende il dolce più dolce. Sono un cupo stratega che avendo perso tutte le battaglie traccia sulla carta dei suoi piani, assaporandone lo schema, i dettagli della sua ritirata fatale, alla vigilia di ogni battaglia futura.

Il destino di desiderare, con la consapevolezza che mai conseguirò, mi ha perseguitato come un ente maligno. Se per un attimo vedo per la strada la figura di una ragazza che mi sembra una donzella e, anche se con una certa indifferenza, penso per un attimo che cosa sarebbe se quella figura mi appartenesse, è sempre sicuro che, dieci passi in là dal mio sogno, quella ragazza trova l'uomo che è palesemente suo marito o il suo amante. Un romantico ne farebbe una tragedia; un estraneo lo sentirebbe come una commedia: io, invece, mescolo le due cose poiché sono un romantico dentro di me ed estraneo a me, e volto pagina per un'altra ironia.

Alcuni dicono che senza speranza la vita è impossibile, altri dicono che con la speranza la vita è vuota. Per me, che oggi non spero e non dispero, essa è un semplice quadro esterno che include me e al quale assisto come a uno spettacolo privo di intreccio, fatto solo per intrattenere gli occhi: balletto senza nesso, un muoversi di foglie al vento, nuvole dove la luce del sole cambia colore, antiche aperture di vie, a casaccio, in opposti punti della città.

Sono, in gran parte, la prosa stessa che scrivo.
Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. E, soprattutto, sono tranquillo come un pupazzo di segatura che acquisendo consapevolezza di se stesso scuote ogni tanto la testa affinché il sonaglio in cima al berretto a punta (parte integrante della stessa testa) faccia suonare qualcosa: vita tintinnante del morto, minimo avviso al Destino.

Quante volte, però, nel bel mezzo di questa insoddisfazione tranquilla si affaccia gradualmente alla mia emozione cosciente il sentimento del vuoto e del tedio di pensare così! Quante volte, come chi sente parlare attraverso dei suoni che cessano e ricominciano, sento l’amarezza essenziale di questa vita estranea alla vita umana: vita in cui niente succede se non nella sua stessa coscienza! Quante volte, svegliandomi da me stesso, intravedo, dall’esilio che io sono, quanto sarebbe meglio se fossi stato il nessuno di tutti, l’uomo felice che ha per lo meno l’amarezza reale, l’uomo contento che prova stanchezza e non tedio, che soffre davvero e non immagina di soffrire; infine, che si uccide invece di morire a se stesso!

Sono diventato una figura da libro, una vita letta. Quello che sento senza volerlo lo sento per poter scrivere di averlo sentito. Quello che penso diventa subito parole, si mescola con immagini che lo disfano, si apre in ritmi che sono un’altra cosa. A forza di ricompormi mi sono distrutto. A forza di pensarmi, io sono ormai i miei pensieri e non più io. Ho sondato me stesso e ho lasciato cadere la sonda; vivo pensando se sono profondo oppure se non lo sono, senz’altra sonda, ormai, al di là del mio sguardo che mi mostra con chiarezza in nero, nello specchio del grande pozzo, il mio volto che mi contempla nell’atto di contemplarlo.

Sono una specie di carta da gioco dal seme antico e sconosciuto sopravvissuta al mazzo perduto. Non ho alcun senso, non conosco il mio valore, non ho nulla a cui mi possa paragonare per potermi trovare, non ho nulla a cui possa servire per potermi conoscere. E così, attraverso le immagini successive con le quali descrivo me stesso (non senza verità, ma con menzogne), io vado vivendo nelle immagini più che in me, raccontandomi fino a scomparire, scrivendo con l’anima come se fosse inchiostro: un’anima che ha la sola utilità di servire a scrivere. Ma questa reazione cessa, e mi rassegno di nuovo. Torno a ciò che sono, anche se non è nulla. E una sorta di lacrime senza pianto bruciano nei miei occhi sbarrati, una sorta di angoscia che non c’è stata mi gonfia aspramente la gola secca. Ma, ahimè, non so che cosa avrei pianto se avessi pianto, né perché non ho pianto. La finzione mi accompagna come la mia ombra. E l’unica cosa che voglio è dormire.


Mi racconterò fino a scomparire,
fino a far bruciare lacrime di poesia
nei miei occhi sbarrati.
Mi penserò senza desideri
e canterò la delusione degli ideali
che si sfracellano “sotto le finestre
come una zolla caduta
da un vaso
dagli ultimi piani”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [143,144]

Sento il tempo come un enorme dolore. Abbandono sempre ogni cosa con esagerata commozione. La povera stanza d'affitto dove ho passato alcuni mesi, il tavolo dell'albergo di provincia dove sono stato sei giorni, perfino la triste sala d'attesa della stazione dove ho speso due ore aspettando il treno: sì, le cose buone della vita mi fanno male in modo metafisico quando le abbandono e penso, con tutta la sensibilità dei miei nervi, che non le vedrò né le avrò mai più, perlomeno in quel preciso ed esatto momento. Mi si apre un abisso nell'anima e un soffio freddo dell'ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! [...] Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.

Dio mi ha creato per essere bambino, e mi ha mantenuto sempre bambino. Perché mi ha permesso che la Vita mi picchiasse e mi rubasse i giocattoli, e mi lasciasse solo durante la ricreazione, a spiegazzare con mani così deboli il mio grembiule azzurro, sporco di lunghe lacrime ? Se non mi era possibile vivere senza carezze, perché hanno buttato via la mia tenerezza ? Ah, ogni volta che vedo per la strada un bambino che piange, un bambino esiliato dagli altri, mi fa più male della tristezza del bambino nel dolore sprovveduto del mio cuore esausto. Mi addoloro con tutta la statura della vita sentita, e sono mie le mani che stringono la cocca del grembiule, sono mie le bocche storte delle lacrime vere, è mia la debolezza, è mia la solitudine, e le risate della vita adulta che passa mi consumano come luci di fiammiferi strusciati sulla rugosa stoffa del mio cuore.

Ti sento, e mi si apre
un abisso nell’animo
nel quale soffia
un freddo vento invernale.

Mentre mi lancio
in questo vuoto penso
a ciò che sono stato
e che non sarò mai più,
“piangendo come un mendicante
il silenzio sbarrato di tutte le porte”.

Ho terminato con te
l’ultimo fiammifero,
da strusciare
“sulla rugosa stoffa
del mio cuore”

Da “Il libro dell’Inquietudine” [146]

Tutto mi si confondeQuando credo di ricordare una cosa, penso a un'altra cosa; se vedo, ignoro, e vedo in modo nitido quanto sono distratto.

Giro le spalle alla finestra grigia, con vetri gelidi al tatto. E per un sortilegio della penombra porto con me, all’improvviso, l’interno della casa antica dove, nel cortile accanto, il pappagallo strepitava; e i miei occhi si addormentavano per l’irreparabilità dell’aver effettivamente vissuto.

Piove da due giorni e dal cielo grigio e freddo cade un’acqua di colore che fa male all’anima. Da due giorni…Sono triste per il sentire,e penso a questo davanti alla finestra con il rumore dell’acqua che sgocciola e della pioggia che cade. Ho il cuore oppresso e i ricordi trasformati in angoscia.

Senza sonno e senza motivo di avere sonno, ho una gran voglia di dormire. Una volta, quando ero bambino e felice, in una casa del cortile accanto viveva la voce di un pappagallo verde pieno di colori.

Nei giorni di pioggia, mai la sua voce diventava triste ed egli gridava, sicuramente dal suo rifugio, un qualche sentimento costante che aleggiava nella tristezza come un grammofono anticipato.

Ho forse pensato a quel pappagallo perché sono triste e l’infanzia lontana lo evoca ? No, in realtà vi ho pensato perché dal cortile dirimpetto di ora la voce di un pappagallo grida confusamente.
…quell’episodio dell’immaginazione che chiamiamo la realtà.

Ho paura di vivere:
raccolgo con circospezione
il gomitolo dimenticato
nella mia anima e mi rifugio,
con il cuore oppresso,
 in un angolo della giornata
a dormire come un gatto stanco.

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