Da “Il libro dell’Inquietudine” [18]

Nelle prime giornate dell’autunno giunto all’improvviso, quando l’imbrunire acquista l’evidenza di un avvenimento prematuro e ci sembra di aver indugiato troppo sulle nostre faccende quotidiane, io assaporo, anche nel bel mezzo del lavoro quotidiano di ogni giorno, questa anticipazione dell’ozio che l’ombra reca, perché è notte – e la notte è sonno, focolare, liberazione. Quando si accendono le luci nell’ampio ufficio che emerge dall’oscurità, e noi ci accingiamo allo straordinario serale senza nessuna sosta per l’intera giornata, sento un conforto assurdo come se fosse il ricordo di un altro, e scrivendo mi sento tranquillo, come se leggessi aspettando il sonno.

Siamo tutti schiavi di circostanze esterne: una giornata di sole ci spalanca vasti campi in mezzo a un caffè di vicolo; un’ombra in campagna ci fa ritrarre dentro di noi e cerchiamo riparo alla meno peggio nella casa priva di porte di noi stessi; un imbrunire, perfino fra le cose del giorno, allarga, come un ventaglio che si apre lentamente, l’intima consapevolezza di dover riposare.

Eppure il lavoro non subisce ritardi: si anima. Non lavoriamo più; ci intratteniamo con il dovere a cui siamo condannati. E all’improvviso, attraverso il foglio grande e rigato del mio destino algebrico, la vecchia casa delle zie antiche, chiusa sul mondo, alberga il sonnolento tè delle dieci, e la lampada a petrolio della mia infanzia perduta, che brilla solo sul lino del tavolo, mi oscura, con la sua luce, la visione di Moreira, illuminato da una elettricità nera, molti infiniti lontano da me. Viene servito il tè (lo serve la cameriera più vecchia delle zie, con avanzi di sonno e il cattivo umore paziente della tenerezza di un antico vassallaggio) e io scrivo senza sbagliare una cifra o una somma attraverso tutto il mio passato morto. Mi riassorbo, mi perdo in me stesso, mi dimentico in notti lontane, incontaminate di dovere e di mondo, vergini di mistero e di futuro.

E talmente soave è la sensazione che mi estranea dal debito e dal credito che, se qualcuno mi interpella, rispondo con dolcezza, come se il mio essere fosse vuoto, come se io fossi soltanto la macchina da scrivere che porto con me, portatile di un me stesso aperto. L’interruzione dei miei sogni non mi turba: sono sogni così dolci che continuo a sognarli mentre parlo e rispondo e converso. E in tutto questo, il tè perduto termina, ed è il momento di chiudere l’ufficio… Alzo dal libro che chiudo lentamente gli occhi esausti per lacrime non versate, e con un miscuglio di sentimenti soffro, perché con la chiusura dell’ufficio si chiude anche il mio sogno; perché il gesto della mia mano che chiude il registro occulta il mio passato irreparabile; perché mi reco al letto della vita privo di sonno, di compagnia e di tranquillità, nel flusso e riflusso della mia consapevolezza confusa come due maree che si mescolano nella notte buia, al limite dei destini della nostalgia e della desolazione.
  

Siamo “come due maree
che si mescolano
nella notte buia,
 al limite dei destini”,
sogni di notti lontane
immerse nel mistero
ed ansiose di futuro.

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