Da “Il libro dell’Inquietudine” [140]
Ho assistito in incognito all’accasciamento graduale della mia vita, al lento naufragio di tutto quanto ho voluto essere. Posso dire, con quella verità la cui morte è palese anche senza corone di fiori, che tutto quanto ho voluto e nel quale ho riposto, anche se per un momento, nient’altro che il sogno di quel momento, tutto mi si è sfracellato sotto le finestre come una zolla caduta da un vaso dagli ultimi piani. Sembra perfino che il Destino abbia sempre cercato di farmi amare o di farmi volere quanto esso aveva stabilito, affinché il giorno dopo io constatassi l’impossibilità di quel desiderio.
Ironico spettatore di me stesso, non ho però mai disertato lo spettacolo della vita. E oggi, da quando sono consapevole, sull'anticipo di ogni vaga speranza, che ogni speranza sarà frustrata, oggi soffro lo speciale piacere di assaporare subito la delusione con la speranza, come un amaro con il dolce che rende il dolce più dolce. Sono un cupo stratega che avendo perso tutte le battaglie traccia sulla carta dei suoi piani, assaporandone lo schema, i dettagli della sua ritirata fatale, alla vigilia di ogni battaglia futura.
Il destino di desiderare, con la consapevolezza che mai conseguirò, mi ha perseguitato come un ente maligno. Se per un attimo vedo per la strada la figura di una ragazza che mi sembra una donzella e, anche se con una certa indifferenza, penso per un attimo che cosa sarebbe se quella figura mi appartenesse, è sempre sicuro che, dieci passi in là dal mio sogno, quella ragazza trova l'uomo che è palesemente suo marito o il suo amante. Un romantico ne farebbe una tragedia; un estraneo lo sentirebbe come una commedia: io, invece, mescolo le due cose poiché sono un romantico dentro di me ed estraneo a me, e volto pagina per un'altra ironia.
Alcuni dicono che senza speranza la vita è impossibile, altri dicono che con la speranza la vita è vuota. Per me, che oggi non spero e non dispero, essa è un semplice quadro esterno che include me e al quale assisto come a uno spettacolo privo di intreccio, fatto solo per intrattenere gli occhi: balletto senza nesso, un muoversi di foglie al vento, nuvole dove la luce del sole cambia colore, antiche aperture di vie, a casaccio, in opposti punti della città.
Sono, in gran parte, la prosa stessa che scrivo.
Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. E, soprattutto, sono tranquillo come un pupazzo di segatura che acquisendo consapevolezza di se stesso scuote ogni tanto la testa affinché il sonaglio in cima al berretto a punta (parte integrante della stessa testa) faccia suonare qualcosa: vita tintinnante del morto, minimo avviso al Destino.
Mi snodo in periodi e paragrafi, mi trasformo in punteggiatura e, nella sfrenata disposizione delle immagini, come i bambini mi maschero da re con carta di giornale; oppure, ritmando una successione di parole, mi acconcio come i pazzi con fiori secchi che sono freschi solo nei miei sogni. E, soprattutto, sono tranquillo come un pupazzo di segatura che acquisendo consapevolezza di se stesso scuote ogni tanto la testa affinché il sonaglio in cima al berretto a punta (parte integrante della stessa testa) faccia suonare qualcosa: vita tintinnante del morto, minimo avviso al Destino.
Quante volte, però, nel bel mezzo di questa insoddisfazione tranquilla si affaccia gradualmente alla mia emozione cosciente il sentimento del vuoto e del tedio di pensare così! Quante volte, come chi sente parlare attraverso dei suoni che cessano e ricominciano, sento l’amarezza essenziale di questa vita estranea alla vita umana: vita in cui niente succede se non nella sua stessa coscienza! Quante volte, svegliandomi da me stesso, intravedo, dall’esilio che io sono, quanto sarebbe meglio se fossi stato il nessuno di tutti, l’uomo felice che ha per lo meno l’amarezza reale, l’uomo contento che prova stanchezza e non tedio, che soffre davvero e non immagina di soffrire; infine, che si uccide invece di morire a se stesso!
Sono diventato una figura da libro, una vita letta. Quello che sento senza volerlo lo sento per poter scrivere di averlo sentito. Quello che penso diventa subito parole, si mescola con immagini che lo disfano, si apre in ritmi che sono un’altra cosa. A forza di ricompormi mi sono distrutto. A forza di pensarmi, io sono ormai i miei pensieri e non più io. Ho sondato me stesso e ho lasciato cadere la sonda; vivo pensando se sono profondo oppure se non lo sono, senz’altra sonda, ormai, al di là del mio sguardo che mi mostra con chiarezza in nero, nello specchio del grande pozzo, il mio volto che mi contempla nell’atto di contemplarlo.
Sono una specie di carta da gioco dal seme antico e sconosciuto sopravvissuta al mazzo perduto. Non ho alcun senso, non conosco il mio valore, non ho nulla a cui mi possa paragonare per potermi trovare, non ho nulla a cui possa servire per potermi conoscere. E così, attraverso le immagini successive con le quali descrivo me stesso (non senza verità, ma con menzogne), io vado vivendo nelle immagini più che in me, raccontandomi fino a scomparire, scrivendo con l’anima come se fosse inchiostro: un’anima che ha la sola utilità di servire a scrivere. Ma questa reazione cessa, e mi rassegno di nuovo. Torno a ciò che sono, anche se non è nulla. E una sorta di lacrime senza pianto bruciano nei miei occhi sbarrati, una sorta di angoscia che non c’è stata mi gonfia aspramente la gola secca. Ma, ahimè, non so che cosa avrei pianto se avessi pianto, né perché non ho pianto. La finzione mi accompagna come la mia ombra. E l’unica cosa che voglio è dormire.
Mi racconterò fino a scomparire,
fino a far bruciare lacrime di poesia
nei miei occhi sbarrati.
Mi penserò senza desideri
e canterò la delusione degli ideali
che si sfracellano “sotto le finestre
come una zolla caduta
da un vaso
dagli ultimi piani”
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