Da “Il libro dell’Inquietudine” [130]

Quando riesco a concludere qualcosa provo sempre stupore. Stupore e afflizione. Il mio istinto di perfezionismo dovrebbe inibirmi dal concludere; dovrebbe inibirmi perfino di cominciare. Ma mi distraggo e lavoro. Ciò che ottengo è il prodotto non di un’applicazione della volontà, ma di un suo cedimento. Comincio perché non ho la forza per pensare; concludo perché non ho coraggio di fermarmi. Questo libro è la mia codardia.
Il motivo per cui tante volte interrompo un pensiero con un brano di paesaggio che in qualche modo si inserisce nello schema, reale o ipotetico, delle mie impressioni, è che quel paesaggio è una porta attraverso la quale sfuggo alla conoscenza della mia impotenza creatrice. Sento la necessità, fra le conversazioni con me stesso che formano le parole di questo libro, di parlare all’improvviso con qualcun altro, e mi rivolgo alla luce che, come in questo momento, si libra sui tetti delle case che sembrano bagnati perché sono illuminati obliquamente; allo stormire blando degli alberi alti sui colli della città, che sembrano vicini, in una possibilità di crollo muto; ai manifesti sovrapposti delle case ripide, con finestre come lettere dove il sole morto fa ingiallire la colla umida.
Perché scrivo, se non scrivo meglio? Ma cosa ne sarebbe di me se non scrivessi ciò che riesco a scrivere per quanto nello scrivere io sia inferiore a me stesso? Sono un plebeo dell’aspirazione perché cerco di realizzare; non oso il silenzio, come chi teme una stanza buia. Sono come coloro che apprezzano più la medaglia che la fatica, e assaporano la gloria attraverso la pelliccia di ermellino.
Per me scrivere è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come una droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima; erbe colte nei canti delle rovine dei sogni, papaveri neri trovati vicino alle tombe, lunghe foglie di alberi osceni che agitano i loro rami sulle rive sentite dei fiumi infernali dell’anima.
Si, scrivere significa perdermi, ma tutti si perdono, perché tutto è perdita. Però io mi perdo senza allegria, non come il fiume nella foce alla quale nacque ignaro, ma come la pozzanghera creata sulla spiaggia dall’alta marea, e la cui acqua, inghiottita dalla sabbia, non tornerà più al mare.


Lungo il fiume
che scorre forte
nella mia anima,
vi sono degli alberi
che ondeggiano quando
incrocio il tuo sguardo
e “mi perdo senza allegria
non come il fiume nella foce
 alla quale nacque ignaro,
ma come la pozzanghera
creata sulla spiaggia
dall’alta marea
e la cui acqua inghiottita
dalla sabbia,
non tornerà più al mare”


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