Da “Il libro dell’Inquietudine”[92]

Dicono che il tedio è la malattia degli oziosi, o che attacca solo coloro che non hanno nulla da fare. Eppure questo malessere dell’anima è più sottile: più che i veri oziosi attacca coloro che hanno disposizione per essa e coloro che lavorano, o che fingono di lavorare( che nella fattispecie è lo stesso).

Non c’è nulla di peggio del contrasto fra lo splendore naturale della vita interiore, con le sue Indie naturali e i suoi paesi sconosciuti, e la sordidezza, anche se in realtà non è sordida, della quotidianità della vita. Il tedio pesa di più quando non ha la scusa dell’ozio. Il tedio dei grandi indaffarati è il peggiore di tutti.

Il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia maggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c’è da fare, tanto più tedio bisogna sentire.

Quante volte sollevo la testa vuota del mondo intero dal registro sul quale sto scrivendo! Sarebbe meglio per me oziare, non fare nulla, senza aver nulla da fare, perché così assaporerei quel tedio, anche se reale. Nel mio tedio presente che non c’è quiete né nobiltà, né il benessere del malessere: c’è un enorme annullamento di ogni gesto compiuto, e non una stanchezza virtuale dei gesti che non compirò.

La nostra vita interiore
è fatta di molti paesaggi,
di isole e di terre ferme.

Talvolta approdiamo
in luoghi sconosciuti,
talvolta ci affacciamo
sull’anima e scopriamo
nuovi rivoli,
talvolta il nulla.

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