Da “Il libro dell’Inquietudine” [87]
E finalmente, sopra l’oscurità dei tetti lustri, la luce fredda del tiepido mattino appare come un supplizio dell’Apocalisse. E’ di nuovo l’immensa notte della luce che cresce. E’ di nuovo l’orrore di sempre: il giorno, la vita, l’utilità fittizia, l’attività senza soluzione. E’ di nuovo la mia persona fisica, visibile, sociale, trasmissibile attraverso parole che non dicono nulla, utilizzabile dai gesti altrui e dalla coscienza altrui. Sono io un’altra volta, così come non sono. Con l’inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre (quanto lontano dall’essere ermetiche, Dio mio!), sento a poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di sognare senza sapere che c’è verità o realtà fra un caldo fresco di biancheria pulita e una conoscenza, salvo per il conforto, dell’esistenza del mio corpo. Sento a poco a poco che mi sfugge, l’incoscienza beata con la quale sto assaporando la mia coscienza, il sonnecchiare animalesco con cui spio, con palpebre di un gatto al sole, i movimenti della logica della mia immaginazione separata. Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste e il sussurrare delle cascate perdute fra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo.
Non so se dormo o se invece sento soltanto di dormire. Non sogno l’intervallo vero ma come se cominciassi a svegliarmi da un sonno non dormito, avverto i primi rumori della vita della città che salgono come una piena dal luogo vago, laggiù in fondo, dove stanno le strade che Dio ha fatto. Sono rumori allegri, filtrati dalla tristezza della pioggia che cade o che forse è caduta, perché ora non la sento…( c’è solo il grigiore eccessivo della luce fessurata fino a un dove più lontano che, nelle ombre di un chiarore debole, mi comunica l’insufficienza per questo momento dell’alba che non solo quale è). Sono suoni allegri e dispersi e mi fanno male nella coscienza come se attraverso di essi fossi chiamato per un esame o per un’esecuzione. Ogni giorno che sento sorgere dal letto nel quale la conoscenza mi è vietata, mi sembra il giorno di un grande avvenimento che non avrò coraggio di affrontare. Ogni giorno, se avverto quel giorno che si leva dal letto delle ombre, con un cadere di lenzuola giù per le strade e per i vicoli, ogni giorno viene a chiamarmi davanti a un tribunale. Sarò processato ogni oggi che esiste. E il condannato perenne che c’è in me si aggrappa al letto come alla madre che ha perduto, e accarezza il guanciale come se la nutrice lo difendesse dalla gente.
Il riposo felice del grosso animale all’ombra degli alberi, la fresca spossatezza del vagabondo fra l’erba alta, il torpore del negro nel pomeriggio tiepido e lontano, la delizia dello sbadiglio che pesa sugli occhi stanchi, tutto ciò che lusinga l’oblio nel dare sonno, la quiete del riposo nella testa, che chiude piano le imposte dell’anima, la carezza anonima di dormire.
Dormire, essere lontano senza saperlo, esser coricato, dimenticare con il corpo; avere la libertà di essere incosciente, un rifugio del lago dimenticato immobile fra chiome di alberi, nelle vaste lontananze delle foreste.
Un nulla con respiro dal di fuori, una morte lieve dalla quale ci si risveglia con nostalgia e freschezza, un cedere dei tessuti dell’anima ai panni dell’oblio.
Ah, e ancora una volta, come la rinnovata protesta di chi non è convinto, sento il frastuono brusco della pioggia che sciaborda nell’universo schiarito. Sento un freddo fin dentro le ossa ipotetiche, come se avessi paura. E accoccolato, annientato, umano, solo con me stesso nella poca tenebra che ancora mi resta, piango, si, piango, piango di solitudine e di vita, e la mia pena superflua come un’automobile senza ruote giace sull’orlo della realtà fra gli sterchi dell’abbandono. Piango per tutto: la perdita del grembo, la morte della mano che qualcuno mi tendeva, le braccia che ignoravo come mi abbracciavano, la spalla che non potrei mai avere…E il giorno che sorge definitivamente, la pena che sorge in me come la verità cruda del giorno, quello che ho sognato, quello che ho pensato, quello che si è dimenticato in me stesso: tutto questo, in un amalgama di ombre, di finzioni e di rimorsi, si mescola nell’orbita in cui girano i mondi e cade fra le cose della vita come lo scheletro di un grappolo d’uva, mangiato all’angolo della strada dai monelli che lo hanno rubato.
Il rumore del giorno umano aumenta all’improvviso, come il suono di un campanello che chiama. Schiocca dentro la casa la serratura soave della prima porta che si apre verso l’universo. Sento un rumore di ciabatte in un corridoio assurdo che conduce al mio cuore. E in un gesto brusco, come chi finalmente si uccide, sollevo dal mio corpo duro le coltri profonde che mi riparano. Mi sono svegliato. Il rumore della pioggia si fa più sfumato in altezza, nell’indefinito fuori. Mi sento più felice. Ho eseguito qualcosa che ignoro. Mi alzo, vado alla finestra, apro le imposte con una decisione di grande coraggio. Riluce un giorno di pioggia chiara che mi sommerge gli occhi di luce opaca. Apre anche i vetri della finestra. L’aria fresca mi inumidisce la pelle calda. Piove, sì, ma anche se tutto è identico, tutto è in fondo così di meno ! Voglio rinfrescarmi, vivere, e piego il collo alla vita come ad un giogo immenso.
“A poco a poco mi perdo
fine ad essere vivo”.
E galleggio sul mare dell’inquietudine
che ha da tempo ricoperto la mia coscienza,
in attesa di una carezza anonima
che mi raccolga
lasciandomi asciugare
nel palmo della sua mano.
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