Da “Il libro dell’Inquietudine” [127]
Il silenzio che scaturisce dal rumore della pioggia si diffonde in un crescendo di grigia monotonia lungo la strada stretta che io fisso. Sto dormendo da sveglio, in piedi contro il vetro al quale mi appoggio come se fosse tutto.
Cerco di sapere da me stesso quali sensazioni sono mai queste che provo davanti ai fili di pioggia cupamente luminosa che si staglia contro le facciate sporche e ancora di più contro le finestre aperte.
Cerco di sapere da me stesso quali sensazioni sono mai queste che provo davanti ai fili di pioggia cupamente luminosa che si staglia contro le facciate sporche e ancora di più contro le finestre aperte.
E non so quello che sento, non so quello che voglio sentire, non so quello che penso ne quello che sono.
Tutta l'amarezza ritardata della mia vita si spoglia dell'abito di allegria naturale che indossa nelle occasioni prolungate di ogni giorno. Constato che, spesso allegro o spesso contento, sono sempre triste. E ciò che in me per questa constatazione è dietro di me, è come si affacciasse sul mio stare appoggiato alla finestra; e guarda da sopra le mie spalle e da sopra la mia testa, con occhi più intimi dei miei, al pioggia lenta, ormai un po’ ondeggiante, che cesella, in filigrana, l’aria cinerea e maligna.
Abbandonare ogni dovere, perfino quelli che non ci sono richiesti, ripudiare ogni focolare,perfino quelli che non sono stati nostri, vivere di vaghezza e di residui fra grandi porpore di follia, e trine false di maestà sognate… Essere qualcosa che non senta il cruccio della pioggia esterna o la pena della vacuità intima…Errare senz’anima né pensiero, sensazione priva di se stessa, per una strada che contorna montagne, per valli nascoste fra scarpate scoscese, lontano, affondato e fatale…Perdersi fra paesaggi come quadri. Non essere fatto di lontananza e colori…
Un soffio leggero di vento, che dietro la finestra non sento, lacera in dislivelli aerei la caduta rettilinea della pioggia. Si schiarisce una parte del cielo che non vedo. Lo noto perché dietro ai vetri quasi puliti della finestra dirimpetto vedo già vagamente, dentro, il calendario sulla parete che fino ad ora non vedevo.
Dimentico. Non vedo. Non penso.
Cessa la pioggia e di essa rimane, per un attimo, un pulviscolo di minuscoli diamanti come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia aperta venisse scossa dalle briciole. Si sente che una parte del cielo è già azzurra. Attraverso la finestra dirimpetto si vede il calendario più nitidamente. C’è un viso di donna, e il resto è facile perché lo riconosco, è il dentifricio più conosciuto.
Ma a che cosa pensavo prima di perdermi a vedere ? Non lo so. Voglia ? Sforzo ? Vita ? Con una grande avanzata di luce si sente che il cielo è già quasi tutto azzurro. Ma non c’è quiete (ah, e non ce ne sarà mai) in fondo al mio cuore, vecchio pozzo al limitare del podere di campagna venduto, memoria di infanzia coperta di polvere nella soffitta della casa altrui. Non c’è quiete: e, ahimè, manca anche il desiderio di averla…
Non c’è più quiete
in fondo al mio cuore.
Non c’è più acqua
da attingere con un secchio
coperto di polvere.
Vedo il tuo volto
in una pioggia
di minuscoli diamanti
e dimentico
non vedendo.
Ed amo,
pur non pensando.
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