Da “Il libro dell’Inquietudine” [85]

Nebbia o fumo ? Saliva dalla terra o scendeva dal cielo ? Chissà: più che una discesa o una emanazione sembrava una malattia dell’aria. A volte sembrava un disturbo degli occhi piuttosto che una realtà della natura.

Qualunque cosa fosse, una torva inquietudine attraversava il paesaggio; una inquietudine fatta di dimenticanza e di attenuazione. Era come se il silenzio del sole malvagio prendesse come suo un corpo imperfetto. Si sarebbe detto che stesse per succedere qualcosa e che dappertutto ci fosse un’intuizione con cui il visibile si 
copriva.

Era difficile dire se nel cielo vi erano nuvole o nebbia.

Era un torpore opaco, colorato qua e là, un grigiore imponderabilmente giallastro eccetto laddove si sfaldava in un rosa falso o laddove ristagnava diventando azzurro; ma non si discerneva se là era il cielo che si rivelava o se era un altro azzurro che lo copriva.

Nulla era definito, neppure l’indefinito. Per questo veniva voglia di definire la nebbia fumo, perché essa non sembrava nebbia; o chiedere se era nebbia o fumo, perché non si capiva cosa fosse. Perfino la temperatura dell’aria corroborava il dubbio. Non era caldo né freddo né fresco; la temperatura sembrava composta da elementi tolti da cose diverse dal caldo. Si sarebbe detto in realtà che una nebbia, fredda a vedersi, era calda al tatto, come se tatto e vista fossero due modi sensibili dello stesso senso.

E intorno alle sagome degli alberi o agli spigoli degli edifici, non c’era quel dissolversi di sagome o di spigoli che porta con sé la vera nebbia, quando ristagna, o che il vero fumo, naturale, socchiude e offusca. Era come se ogni cosa proiettasse un’ombra vagamente diurna in tutti i sensi, senza una luce che la giustificasse in quanto ombra, senza un luogo di proiezione che la giustificasse in quanto visibile.

E non era neanche visibile: era come un inizio di qualcosa che si sarebbe vista, ma dappertutto in modo uguale, come se quello doveva essere rivelato esitasse ad apparire.

E che sentimento c’era ? L’impossibilità di averlo, il cuore disfatto nel cervello, i sentimenti confusi, un torpore di esistenza desta, un perfezionamento di qualcosa di animistico come l’udito, verso una rivelazione definitiva, inutile, sempre sul punto di apparire, come la verità, sempre, come la verità, gemella del non apparire mai.

Ho allontanato persino la voglia di dormire che il pensiero ricorda, perché il mero sbadiglio di averla sembra uno sforzo. Persino cessare di vedere fa male agli occhi. E nell’abdicazione incolore di tutta l’anima soltanto i rumori esterni in lontananza sono il mondo impossibile esiste ancora.

Ah, un altro mondo, altre cose, un’altra anima con cui sentirle, un altro pensiero col quale sapere di quell’anima!

Tutto, perfino il tedio; ma non questo anodino sfumare dell’anima e delle cose, questo abbandono azzurrino dell’indefinizione di tutto!

Vorrei avere un’altra vita,
“un altro mondo, altre cose,
un’altra anima con cui sentirle,
un altro pensiero” con cui riconoscerle.


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