Da “Il libro dell’Inquietudine” [71]

Si è il tramonto. Sbocco sulla foce di Rua de Alfandega, neghittoso e disperso, e quando mi rischiara il Terreiro do Paço, vedo, nitida, la luminosità senza sole del cielo occidentale. E’ un cielo di un azzurro verdino che sfuma nel grigio bianco, dove, dalla parte sinistra, sui monti dell’altra riva, si accovaccia in un cumulo una nebbia brunita da un rosa vecchio. C’è una grande pace dispersa freddamente nell’autunnale aria distratta: una grande pace che io non ho. Non avendola, patisco il vago piacere di supporre che essa esista. Ma, in realtà, non c’è pace o mancanza di pace: solo cielo, cielo pieno di colori che languiscono: azzurro bianco, verde azzurrino, grigio pallido fra il verde e l’azzurro, vaghi toni remoti di colori di nuvole che non sono nuvole, giallamente ombrate di un rosso spossato. E tutto costituisce una visione che si esaurisce nello stesso momento in cui ha luogo, un intervallo fra nulla e nulla, alato, collocato in alto, prolisso ed indefinito, con tonalità di cielo e angustia.

Sento e dimentico. Una nostalgia, quella nostalgia che tutti hanno per tutto, mi invade come un oppio di aria fredda. C’è in me un’ estasi di vedere, intima e posticcia.

Dalle parti della foce, dove l’estinto sole sempre più su si estingue, al luce muore in un bianco livido che si azzurra di verdastro freddo. C’è nell’aria il torpore di ciò che non si ottiene mai. Tace alto il paesaggio del cielo.

In quest’ora, in cui sento fino a traboccare, vorrei avere la malizia intera di dire, e per destino il libero capriccio di uno stile. E invece no. Soli il cielo alto e remoto, che si abolisce, è tutto; e l’emozione che ho, e che sono tante emozioni, unite e confuse, non è altro che il riflesso di questo cielo nullo di un lago in me, lago prigioniero fra irte rocce, silente, sguardo di morto, in cui l’altezza si contempla dimentica.

Tante volte, tante, come ora, mi è stato grave sentire che sento; sentire come una angustia, solo perché è “sentire”, l’inquietudine di star qui, la nostalgia di un’altra cosa  che non si è conosciuta, il ponente di tutte le emozioni; sentire ingiallirmi consunto dalla cinerea tristezza nella mia coscienza esterna di me.

Ah, chi mi salverà dall’esistere ? Non è la morte che voglio, né la vita: è quel qualcosa che brilla nel fondo dell’inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. E’ tutto il peso e tutta la pena di questo universo reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell’aria fittizia da cui l’immaginaria falce e crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità.

E’ tutta l’assenza di un Dio vero che è il cadavere vacuo del cielo alto e dell’anima chiusa. Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te!
  
Ho bisogno di qualcuno
che mi dia pace,
pace interiore.

Ma sento e dimentico,
 e le emozioni che ho
sono solo i riflessi del tuo pensiero,
che si specchia in quel lago agitato
che è la mia anima.

La pace interiore brilla
nel fondo dell’inquietudine
ma è un diamante in un pozzo
dove non si può scendere.

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